La Gazzetta dello Sport

Personalis­mi, gaffe, esibizioni muscolari: il club ha detto basta

- di ma. cec.- ROMA

Provando a definire con una sola parola il sentimento che si respira nella Roma in questi giorni, verrebbe fuori questa: stupore. Nessuno cerca alibi, ma a tutti sembra incredibil­e come un anno fa il club si sia battuto strenuamen­te per legarsi - con un contratto triennale da oltre un milione a stagione – con Gianluca Petrachi. Intendiamo­ci, il ruolo di d.s. in senso stretto è stato ricoperto senza disdoro. Ma la Roma è qualcosa di più, ovvero una «media company» con alte esigenze comunicazi­onali, per le quali il d.s. non è parso adeguato.

Causa per mobbing

Eppure non è stato solo questo a portare allo scontro, con possibili strascichi, visto che si dice come Petrachi voglia fare causa per mobbing. A portare alla dissoluzio­ne del rapporto, infatti, è stato il puntiglio che il d.s. avrebbe mostrato anche negli ultimi giorni, quando gli è stato chiesto di scusarsi col presidente Pallotta – a cui giovedì aveva fatto inviare (non conoscendo l’inglese) un messaggio definito irriguardo­so. Ma il dirigente non ha raccolto l’invito, dicendo anzi che era a lui che avrebbero dovuto fare le scuse. Il «casus belli»? Piccolo da far sorridere: Pallotta aveva citato Fienga e Zubiria ma non il d.s. nel giorno dell’anniversar­io della firma di Fonseca , cosa peraltro non vera, perché – essendo stati estrapolat­e frasi da una intervista più lunga – le citazioni c’erano, ma in quel momento non erano pertinenti con l’evento. Da quel momento i tentativi di mediazione di Fienga sono stati inutili, perché l’ego del direttore («la mia squadra, il mio allenatore») – mai scalfito dal «noi» - non si è sgonfiato. Dai metodi del preparator­e Lippie al mancato appoggio del club, le rimostranz­e del salentino sono state tante, ma quella di base in fondo era una: «Non posso fare il Petrachi», come se fosse una categoria dello spirito.

Le tante gaffe

In realtà, a volte lo aveva fatto in modo che la Roma ha giudicato eccessivo. Se erano parse rischiose l’apparizion­e a fianco di Fienga nel viaggio per conoscere Fonseca (era sotto contratto col Torino) e le parole dure su Dzeko nel giorno dell’insediamen­to (il bosniaco voleva rispondere, ma fu placato), i meriti che si era attribuito proprio nella trattativa sul rinnovo di Dzeko in tempi «sbagliati», aveva portato a una indagine federale non gradita. Poi, lo stile non oxfordiana lo ha tradito altre volte, soprattutt­o nel giorno in cui definì il calcio «uno sport non per signorine» quando invece la Roma mira a diventare uno dei top club nel femminile. Gli risposero il ministro Spadafora e la c.t. Bertolini, e non fu una bella figura, tanto da costargli lo stop ai post-partita. Non basta. Non sono piaciuti neppure i modi rudi utilizzati a Trigoria, tollerati finché non hanno invaso la sfera di Fonseca. L’irruzione nello spogliatoi­o durante l’intervallo della partita col Sassuolo ha ghiacciato i rapporti con allenatore e squadra che certo dopo la sparizione durante il lockdown (stigmatizz­ata) - non sono migliorati successiva­mente. L’incauta intervista tv in cui criticava la concentraz­ione della squadra, infatti, è stato il penultimo anello di una catena troppo pesante da sostenere. Perché quando nel mirino di Petrachi è entrato Pallotta, il tempo dei saluti è arrivato. Senza rimpianti. E, forse, con una buonuscita.

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A Trigoria Petrachi e Mkhitaryan, presentazi­one e sorrisi

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