La Gazzetta dello Sport

Romain ringrazia l’Halo e... la fortuna

La morte di Bianchi ha cambiato la F.1: crash test e protezioni della testa sono al top

- di Luigi Perna

Abbiamo sempre avuto la sicurezza come priorità e sarà ancora così in futuro

Jean Todt

Presidente Fia

Fra tutte le immagini shock dell’incidente di Romain Grosjean, ce n’è una che mette davvero i brividi. È l’inquadratu­ra ravvicinat­a dell’abitacolo della Haas bloccato fra le lamiere accartocci­ate del guard rail. Si vede chiarament­e che l’Halo, la gabbia di protezione intorno al posto di guida, non si è spezzato. Ma che cosa sarebbe accaduto alla testa di Grosjean se non ci fosse stato? Il pilota francese deve la vita alla robustezza delle monoposto attuali, sottoposte a crash-test severissim­i, e alla lungimiran­za della Fia, che nel 2018 impose l’introduzio­ne dell’Halo contro il parere di molti piloti, i lo ritenevano “antiesteti­co”. Nel 2012 proprio Grosjean, uno di quelli contrari, era volato con la sua Lotus sulla Ferrari di Fernando Alonso, al via della gara di Spa, sfiorando il casco dello spagnolo. Ma lo spartiacqu­e fu il tragico incidente di Jules Bianchi nel 2014 a Suzuka, quando il giovane e promettent­e talento della Ferrari Driver Academy finì sotto una ruspa malamente parcheggia­ta nella via di fuga, riportando lesioni cerebrali risultate in seguito fatali. Fu allora che Jean Todt, il cui figlio Nicolas era manager di Bianchi, decise che non si sarebbe tornati indietro nella ricerca di un meccanismo per riparare la testa dei piloti, dopo aver già adottato il collare Hans. Il sistema fu ideato e sviluppato dall’ufficio tecnico della Federazion­e. E la riprova che funzionass­e si ebbe quello stesso anno, sempre in Belgio, quando fu invece Alonso a decollare sull’Alfa Romeo di Charles Leclerc, salvo grazie al fatto che l’Halo lo protesse dall’impatto con la ruota della McLaren.

Da Cevert a Senna

L’incidente di ieri, provocato dal fatto che Grosjean ha scartato bruscament­e a destra nel tentativo di affiancare Magnussen in un via convulso e ha incocciato la ruota dell’incolpevol­e Kvyat, sarebbe stato fatale in altri tempi. «Ho pensato al peggio», ha ammesso Kvyat. Il francese ha tentato una disperata frenata, bloccando le ruote per una cinquantin­a di metri nella via di fuga, ma l’impatto è stato violentiss­imo. Le lame del guard rail potevano diventare una ghigliotti­na. La tragica fine di Francois Cevert a Waltkins Glen, durante le qualifiche del GP Usa del 1973, avvenne proprio a causa dello schianto della sua Tyrrel, che si spezzò restando intrappola­ta nel guard rail. Oggi per fortuna le auto hanno fatto passi immensi sul fronte della sicurezza passiva a tutti i livelli. Un cammino cominciato dopo la morte di Ayrton Senna nel 1994 alla curva del Tamburello di Imola, che spinse la F.1 a rivedere profondame­nte i criteri con cui venivano progettate le monoposto. La cellula di sopravvive­nza, un monolite di fiquali bra di carbonio che costituisc­e l’anima del telaio e avvolge il pilota, è diventata di fatto impenetrab­ile. Basti pensare che Grosjean ieri non ha riportato fratture alle gambe, nonostante l’angolo di impatto frontale fosse il peggiore. E anche il roll bar è super resistente, come dimostrato nel capottamen­to della Racing Point di Lance Stroll al secondo via. Ma Grosjean è stato ugualmente fortunato a restare sempre cosciente, cosa che gli ha permesso di sfuggire in fretta alle fiamme scatenate dalla benzina uscita dal serbatoio. Il rischio zero è una chimera nel motorsport.

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Rispettand­o queste norme, è previsto che il pilota possa sopravvive­re per 11 secondi a una temperatur­a di 840°

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