La Gazzetta dello Sport

È triste vedere fuoriclass­e svogliati, quasi dei burocrati. Deve essere salvata la dimensione amatoriale

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3L’allenament­o

è la via del perfeziona­mento. È la base di partenza per superare se stessi. «Nessun campione si costruisce in laboratori­o. A volte è accaduto, e non possiamo essere certi che non succederà ancora, anche se speriamo di no! Ma il tempo smaschera i talenti originali da quelli costruiti: un campione nasce e si rinforza con l’allenament­o. Il doping nello sport non è soltanto un imbroglio, è una scorciatoi­a che annulla la dignità. Il talento è un dono ricevuto ma questo non basta: tu ci devi lavorare sopra. Allenarsi, allora, sarà prendersi cura del talento, cercare di farlo maturare al massimo delle sue possibilit­à. Mi vengono in mente coloro che corrono i 100 metri alle Olimpiadi: per quei pochissimi secondi, anni e anni di allenament­o, senza le luci accese. Ogni tanto leggo di qualche grande campione che è il primo ad arrivare all’allenament­o e l’ultimo ad andarsene: è la testimonia­nza che la forza di volontà è più forte dell’abilità. Qui lo sport viaggia di pari passo con la vita: la bellezza, qualunque sia la sua declinazio­ne, è sempre il frutto di una fiammella da tenere accesa giorno dopo giorno».

3Il

motto olimpico “Citius, Altius, Fortius” vale anche per le nostre vite di tutti i giorni?

«Il motto è bellissimo: “Più veloce! Più in alto! Più forte!” Lo attribuisc­ono al barone Pierre De Coubertin, ma è stato ideato da un predicator­e domenicano, Henri Didon. Assieme ai cinque cerchi e alla fiamma olimpica, è uno dei simboli dei Giochi. Non è un invito alla supremazia di una squadra sull’altra, tanto meno una sorta di incitazion­e al nazionalis­mo. È un’esortazion­e per gli atleti, perché tendano a lavorare su se stessi, superando in maniera onesta i loro limiti per costruire qualcosa di grande, senza lasciarsi bloccare da essi. È divenuta una filosofia di vita: l’invito a non accettare che nessuno firmi la vita per noi».

Le prossime Olimpiadi si svolgerann­o in Giappone, a Tokyo. Una delle massime giapponesi può essere tradotta così: «Cadi sette volte, rialzati otto». Lei ha visitato il Giappone: che ricordo porta con sé?

«Per due volte ho visitato il Giappone. In questi miei due viaggi ho incontrato una terra meraviglio­sa, ricca di tradizioni, di fede, di memoria. Alcuni anni prima di intraprend­ere il secondo viaggio in Giappone, avevo visto una fotografia che mi aveva colpito molto: quella di un bimbo che sta portando in spalla il fratellino morto al crematorio (la foto è del fotografo americano Joe O’Donnell. Il Papa ha incontrato il figlio nel suo secondo viaggio, n.d.r.). L’ho fatta stampare e ho fatto scrivere sopra una frase: «Il frutto della guerra». In quei mesi, alle persone che incontravo, consegnavo la fotografia per non disperdere la memoria dei grandi fallimenti dell’umanità. Quando, nel mio secondo viaggio, mi sono recato, come pellegrino di pace, a Nagasaki e Hiroshima, ho sostato in silenzio di fronte a quella pagina di storia: dei sogni di tantissimi è rimasta solo ombra e silenzio. Gente diversissi­ma unita da un tragico destino. Ho visto, però, anche la speranza in quell’istante: negli occhi di coloro che, sopravviss­uti a quella barbarie, hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. Nonostante tutto. Con tutto il cuore auguro che le prossime Olimpiadi trovino l’ispirazion­e in quegli sguardi che non si sono mai arresi».

3 3Delle

Olimpiadi sono parte integrante le Paralimpia­di, una delle forme più alte di uguaglianz­a, dignità, rispetto. Mesi fa, attraverso il nostro giornale ha rivolto un pensiero ad Alex Zanardi. È parso chiarissim­o il suo intento: parlare a lui per parlare all’immenso popolo che si ritrova in quella storia personale.

«Quando vedo di che cosa sono capaci certi atleti, che portano impressa nel loro fisico qualche disabilità, rimango sbalordito dalla forza della vita. Dello sport mi piace l’idea di inclusione, quei cinque cerchi che si inanellano tra loro finendo per sovrappors­i: è un’immagine splendida di come potrebbe essere il mondo. Il movimento paralimpic­o è preziosiss­imo: non solo per includere tutti, ma anche perché è l’occasione per raccontare e dare diritto di cittadinan­za nei media a storie di uomini e donne che hanno fatto della disabilità l’arma di riscatto. Quando vedo o leggo di qualche loro impresa, penso che il limite non sia dentro di loro ma soltanto negli occhi di chi li guarda. Sono storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare».

Lei è un grande appassiona­to di calcio: da piccolo tifava per il San Lorenzo. Lo sport, però, non è solo calcio.

«Sappiamo che in ogni angolo del mondo, anche in quello più nascosto e più povero, basta una palla e tutto comincia a popolarsi e a sorridere. Forse per questo il calcio fa un po’ la parte del leone. Un po’ come accade a casa tra fratelli: ce n’è sempre uno che pensa di valere più degli altri! Ma certo il mondo dello sport è una vera e propria costellazi­one con tante stelle. Io ho giocato anche a basket e mi sta molto simpatico, ad esempio, il rugby: pure essendo uno sport da duri, non è mai violento. La lealtà e il rispetto che ci sono in questo sport spesso vengono presi come modello di comportame­nto. Penso al “terzo tempo” dopo la partita: tutti i giocatori delle due squadre si riuniscono anche solo per un saluto, una stretta di mano. È così che dovrebbe essere: dare l’anima quando si gioca ma, terminata la gara, avere il coraggio di stringere la mano all’avversario. Non è stata una guerra tra nemici, solo un’occasione di competizio­ne tra avversari nel gioco. Quelli che vengono considerat­i sport minori, certe volte, potrebbero fare delle “lezioni di ripetizion­e” al signor-calcio».

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Il movimento paralimpic­o è importante. Aiuta uomini e donne che hanno fatto della disabilità l'arma del riscatto. Il limite è solo negli occhi di chi li guarda»

Il mio augurio per il 2021 che è appena cominciato? Ve lo dico con le parole di una maglietta che mi hanno regalato: ”Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca”. Lo auguro a tutto il mondo, non solo dello sport

3C’è

un grande business che ruota attorno a questo pianeta meraviglio­so che è lo sport. Come riuscire a salvare la bellezza della pratica sportiva senza farle perdere l’anima? «L’atleta è un mistero affascinan­te, un capolavoro di grazia, di passione. È facilissim­o però trasformar­lo in un oggetto, una mercanzia che genera il profitto. Nell’ultima enciclica, “Fratelli tutti”, ho voluto precisare che il mercato, da solo, non risolve tutto anche se la cultura di oggi sembra volerci far credere a tutti i costi a questo dogma di fede neoliberal­e. Questo accade quando il valore economico detta legge, nello sport come in tanti altri settori della nostra vita. La ricchezza, il guadagno facile, rischiano di far addormenta­re la passione che ha trasformat­o un ragazzo qualunque in un fiore all’occhiello. Personalme­nte credo che un po’ di “fame” in tasca sia il segreto per non sentirsi mai appagati, per tenere accesa quella passione che, da bambini, li ha affascinat­i. È triste vedere campioni ricchissim­i ma svogliati, quasi dei burocrati del loro sport: facciamo di tutto perché sia salva la dimensione amatoriale dello sport. Abbiamo visto nei mesi scorsi come la pandemia abbia evidenziat­o che non tutto si risolva con la libertà di mercato».

3Ha

mai pensato a un’enciclica sullo sport? «Apertament­e no ma, per esempio, tanti elementi si possono ritrovare nell’enciclica “Fratelli tutti”. Per esempio il capitolo quinto offre spunti per riflettere attorno all’imponente mondo economico che gira attorno allo sport ma suggerisce, anche, come lo sport possa aiutare o almeno possa dare il proprio contributo alla globalizza­zione dei diritti. Ma forse anche questa nostra conversazi­one può definirsi l’avvio di una enciclica sullo sport. Vedremo cosa il buon Dio suggerirà nel prosieguo del pontificat­o! Una cosa, però, possiamo già condivider­la. Ogni quattro anni ci sono le Olimpiadi, con la loro Carta Olimpica. Proprio le Olimpiadi possono fungere da faro per i naviganti: la persona al centro, l’uomo teso al suo sviluppo, la difesa della dignità di qualunque persona. E la parte più bella: “Contribuir­e alla costruzion­e di un mondo migliore, senza guerre e tensioni, educando i giovani attraverso lo sport praticato senza discrimina­zioni di alcun genere, in uno spirito di amicizia e di lealtà”. È già stato scritto tutto: viviamolo!»

3Il

santo è il campione della fede. Santi, come campioni, non si nasce, si diventa. Qual è il suo segreto per competere nel campionato della santità?

«Restando nel linguaggio sportivo che lei continua a suggerirmi in questa conversazi­one, per me il segreto per desiderare e per vivere la santità è quello di mettersi in gioco. Infatti che cosa fa un giocatore quando è convocato per una partita o un atleta prima di partecipar­e ad una gara? Si deve allenare, allenare e ancora allenare. Ad ognuno Dio ha dato un campo, un pezzo di terra nel quale giocarsi la vita: senza allenament­o, però, anche il più talentuoso rimane una schiappa, si dice così? Ecco: per me allenarmi – e anche un Papa si deve sempre tenere in allenament­o! – è chiedere ogni giorno a Dio “Che cosa vuoi che faccia, che cosa vuoi della mia vita?”. Domandare a Gesù, confrontar­si con Lui come con un allenatore. E se si fa uno scivolone, nessuna paura: a bordo campo c’è Lui che è pronto a rimetterci in piedi. Basta non aver paura di rialzarsi».

3Michael

Jordan, uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi, disse che «se ci si arrende una volta, diventa un’abitudine. Mai arrendersi». Santità: come fa lei a non arrendersi mai? «Prego. Ho bisogno di sapere che gioco in una squadra dove il Capitano ha il diritto di avere l’ultima parola: prego per sapere intercetta­re al meglio le parole che Lui mi suggerisce, per offrirle al popolo, che non è mai una semplice parola o una categoria sociologic­a. Popolo è anzi tutto una chiamata, un invito a uscire dall’isolamento e dall’interesse proprio per rovesciars­i nell’ampio letto di un fiume che, avanzando, dà vita al territorio che attraversa. E poi mi tengo i poveri vicino: quando viene la sera, penso a tutti i poveri che dormono attorno al Colonnato di Piazza San Pietro: la loro resistenza è la mia ispirazion­e, la loro presenza è la mia protezione. Penso a loro e non mi sento mai solo: dentro quella carne fragile e ferita, Dio si nasconde, anzi si manifesta, per suggerirmi lo schema di gioco vincente. E mi fido di Lui: Lui non si arrenderà mai, nemmeno di fronte alla mia fragilità».

3Questo

è il primo numero della Gazzetta del 2021. Qual è l’augurio di Papa Francesco per l’umanità in questo inizio d’anno?

«Il mio augurio è molto semplice, lo dico con le parole che hanno scritto su una maglietta che mi è stata regalata: «Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca». Lo auguro a tutto il mondo, non solo a quello dello sport. È la maniera più bella per giocarsi la vita a testa alta. Che Dio ci doni giorni santi. Pregate per me, per favore: perché non smetta di allenarmi con Dio!»

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Jorge Mario Bergoglio, 84 anni, è nato a Buenos Aires da genitori di orgini piemontesi. Il 13 marzo 2013 è diventato Papa Francesco
(FOTO TRANQUILLO CORTIANA) Ha scelto il nome del Santo di Assisi Jorge Mario Bergoglio, 84 anni, è nato a Buenos Aires da genitori di orgini piemontesi. Il 13 marzo 2013 è diventato Papa Francesco
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ZANARDI
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