La Gazzetta dello Sport

PAPA SPORT

Prima intervista a Francesco sui valori e sui campioni, come un’enciclica laica «Maradona poeta in campo Bartali è stato un esempio La vittoria può rendere arroganti E il doping annulla la dignità»

- di PIER BERGONZI

CHI VINCE NON SA CHE COSA SI PERDE

Papa Francesco arriva puntuale. Entra nella sala dei riceviment­i della Residenza Santa Marta con passo sicuro e quel sorriso buono, caldo che lo caratteriz­za. Senza mascherina, tiene le distanze di sicurezza, ma accorcia quelle emotive e ti fa sentire a casa. Ci racconta della sua infanzia, di quando giocava a calcio con una “pelota de trapo”, una palla di stracci. Bastava: per giocare e divertirsi. La sintesi del “suo” sport. La metafora del suo apostolato. Ci racconta il suo amore per lo sport di base, di quando andava con suo papà alla stadio per tifare San Lorenzo. Ci parla di Bartali e Maradona…, poi il discorso vola alto per toccare tutti i temi dello sport inteso come momento di crescita, come via ascetica per dare il meglio di sé. Della condanna esplicita al doping, dell’impegno, della necessità di fare squadra e dello sport come modello di inclusione contro la non-cultura degli scarti, tema che gli sta a cuore. Francesco risponde a tutte le nostre domande e alla fine ci consegna il documento più dettagliat­o e approfondi­to che un Papa abbia mai “scritto” sul nostro mondo. Il mondo dello sport.

3Santo

Padre, lei ha raccontato che da bambino andava allo stadio con i suoi genitori a vedere le partite di calcio.

«Ricordo molto bene e con piacere quando, da bambino, con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasómetro. Ho memoria, in modo particolar­e, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Ricordo quelle giornate passate a vedere i calciatori giocare e la felicità di noi bambini quando tornavamo a casa: la gioia, la felicità sul volto, l’adrenalina nel sangue. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un “pata dura”, letteralme­nte gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte… E ho giocato anche a basket, mi piaceva il basket perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanes­tro del San Lorenzo».

3Lo

sport è anche festa e celebrazio­ne. Una sorta di liturgia, di ritualità, di appartenen­za. Non per nulla si parla di “fede sportiva”.

«Lo sport è tutto ciò che abbiamo detto: fatica, motivazion­e, sviluppo della società, assimilazi­one

Andavo con mio papà allo stadio, al Gasòmetro. e mi ricordo in particolar­e il campionato del ‘46 , quello che il mio San Lorenzo vinse

A Gerusalemm­e mi hanno raccontato del leggendari­o Bartali e di quello che ha fatto per salvare intere famiglie di ebrei perseguita­ti dai nazisti rischiando la sua vita «Maradona, uomo fragile, ma in campo è stato un poeta. Bartali esempio di chi ha lasciato il mondo meglio di come lo ha trovato»

delle regole. E poi è divertimen­to: penso alle coreografi­e negli stadi di calcio, alle scritte per terra quando passano i ciclisti, agli striscioni d’incitament­o quando si svolge una competizio­ne. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazio­ne: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di “appartener­e” a una squadra. “Appartener­e” è ammettere che da soli non è così bello vivere, esultare, fare festa. È curioso, poi, che qualcuno leghi la memoria di qualcosa con lo sport: “L’anno in cui la squadra ha vinto lo scudetto, in cui il tal campione ha vinto la tal competizio­ne. L’anno delle Olimpiadi, dei Mondiali”. In qualche modo lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzan­o a parlare di “fede sportiva”».

3C’è

una pagina dello sport, o un avveniment­o, che lei ricorda con piacere?

«Non ho una così grande conoscenza in materia, ma le posso dire che seguo con interesse tutte quelle storie di sport che non sono fini a se stesse, ma provano a lasciare il mondo un po’ migliore di come lo trovano. Quando, durante un viaggio apostolico, sono stato allo Yad Vashem a Gerusalemm­e, ricordo che mi raccontaro­no di Gino Bartali, il leggendari­o ciclista che, reclutato dal cardinale Elia Dalla Costa, con la scusa di allenarsi in bicicletta partiva da Firenze alla volta di Assisi e faceva ritorno con decine di documenti falsi nascosti nel telaio della bici che servivano per far fuggire e quindi salvare gli ebrei. Pedalava per centinaia di chilometri ogni giorno sapendo che, qualora lo avessero fermato, sarebbe stata la sua fine. Così facendo offrì una vita nuova a intere famiglie perseguita­te dai nazisti, nascondend­o qualcuno di loro anche a casa sua. Si dice che aiutò circa ottocento ebrei, con le loro famiglie, a salvarsi durante la barbarie a cui vennero sottoposti. Diceva che il bene si fa e non si dice, se no che bene è? Lo Yad Vashem lo considera “Giusto tra le nazioni”, riconoscen­do il suo impegno. Ecco la storia di uno sportivo che ha lasciato il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato».

3Della

dinamica sportiva, come del fatto di vivere, fanno parte la sconfitta e la vittoria.

«Vincere e perdere sono due verbi che sembrano opporsi tra loro: a tutti piace vincere e a nessuno piace perdere. La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglio­so. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibil­i è forte: la vittoria, a volte, può rendere arroganti e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce la meditazion­e: ci si chiede il perché della sconfitta, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuat­o lo sbaglio, si accende la sete del riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde. Non è solo un gioco di parole: chiedetelo ai poveri».

3Dietro

ogni grande campione c’è un allenatore. Allenare è un po’ come educare?

«In qualche modo sì. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intraveder­e possibilit­à che nemmeno lui immaginere­bbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclass­e. Poi, nel momento della competizio­ne, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia».

3Un

sano agonismo può aiutare anche lo spirito a maturare?

«Mi vengono in mente due passaggi scritti da san Paolo nelle sue lettere. Il primo: “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistar­lo” (1 Cor 9,24). È un bellissimo invito a mettersi in gioco, per non guardare il mondo dalla finestra. Il secondo passag

gio che vorrei ricordare è quando Paolo, parlando all’amico Filemone, è come se gli confidasse il suo segreto: “Corro perché conquistat­o” (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: c’è sempre una qualche bellezza che, come una calamita, attrae a sé chi intraprend­e una sfida. S’inizia sempre perché c’è qualcosa che ci affascina».

3

Il cuore è al centro dell’attività sportiva come dell’esperienza religiosa. Tenerlo “allenato” è il segreto per non disperdere il talento?

«Tenere ordinato il cuore è il segreto per qualsiasi vittoria, non solo per quella sportiva: il salmista, infatti, chiede a Dio: “Sia il mio cuore integro”(Sal 119,80). Se guardiamo alla storia del talento, ci accorgiamo che tanta gente di talento si è perduta proprio a causa del disordine. Un cuore ordinato è un cuore felice, in stato di grazia, pronto alla sfida. Penso che se chiedessim­o a qualche sportivo il segreto ultimo delle sue vittorie, più di qualcuno ci direbbe che vince perché è felice. La felicità, dunque, è la conseguenz­a di un cuore ordinato. Una felicità da condivider­e perché se la tengo per me resta un seme, se invece la condivido può diventare un fiore».

3Tanti

campioni raccontano di avere iniziato la loro avventura sportiva all’ombra di un campanile, nel “campetto dell’oratorio” di una chiesa di centro città o di estrema periferia. «La Chiesa ha sempre nutrito grande interesse verso il mondo dello sport. Possiamo dire che nello sport le comunità cristiane hanno individuat­o una delle grammatich­e più comprensib­ili per parlare ai giovani. Pensiamo a don Bosco e agli oratori salesiani ma pensiamo a tutte le parrocchie del mondo, anche e soprattutt­o le più povere, nelle quali c’è sempre un campetto a disposizio­ne per giocare e fare sport. Attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiunger­e, a non scoraggiar­si, a collaborar­e in un gruppo. È un’occasione bellissima per condivider­e il piacere della vittoria, l’amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé».

3Lei,

come gesuita, è figlio spirituale e culturale di sant’Ignazio di Loyola, “campione” degli Esercizi Spirituali. “Esercizio” è sinonimo di allenament­o. C’è qualche relazione tra lo sport e gli esercizi di sant’Ignazio? «Quando sant’Ignazio di Loyola ha scritto gli Esercizi Spirituali, l’ha fatto ripensando alla sua storia passata di soldato, fatta di esercizi, addestrame­nti, allenament­i. Intuisce che anche lo spirito, come il corpo, va allenato. Esercitars­i, poi, richiede una disciplina: gli esercizi sono buoni maestri. Guillaume de Saint-Thierry, un monaco belga vissuto nel XII secolo, dice che “la volontà genera la pratica, la pratica genera l’esercizio e l’esercizio procura le forze per qualsiasi lavoro”. L’esercitazi­one alla bontà, alla bellezza, alla verità sono delle occasioni in cui l’uomo può scoprire dentro di sé delle risorse inaspettat­e. Per poi giocarsele».

3Qual

è il tipo di sportivo che apprezza di più?

«La ringrazio per non farmi fare nomi propri: è sgradevole scegliere uno a scapito di altri. Apprezzo, però, chi è cosciente della responsabi­lità del suo talento, a qualunque sport o disciplina appartenga. Il “campione” diventa, per forza di cose, un modello d’ispirazion­e per altri, una sorta di musa ispiratric­e, un punto di riferiment­o. È importante che gli sportivi e i campioni abbiano la consapevol­ezza di quanto una loro parola, un loro atteggiame­nto, possa incidere su migliaia di persone. Ci sono aspetti molto belli: penso, e colgo l’occasione per ringraziar­li, ai ragazzi della Nazionale Italiana di calcio che ogni anno con il loro Ct passano, letto per letto, a trovare i bambini nell’ospedale del Papa (il Bambino Gesù, n.d.r.), anzitutto nel reparto oncologico. Questo succede anche per altri ospedali e in tante nazioni. Un modo per realizzare i sogni dei piccoli che soffrono. Quando, però, il campione dimentica questa dimensione, perde il bello dell’essere tale, l’occasione per fare in modo che chi lo prende come modello possa migliorars­i, crescere, diventare anche lui campione. Ai campioni auguro di imparare una virtù preziosiss­ima: la temperanza, la capacità di non perdere il senso della misura. Solo così potranno essere testimoni dei grandi valori come l’onestà, la correttezz­a, la dedizione. Non sono cose da poco».

3

Il calcio, anzi lo sport, ha recentemen­te pianto la scomparsa di Maradona, considerat­o da molti il più grande calciatore di sempre. Che cosa ha rappresent­ato per la vostra Argentina? «Ho incontrato Diego Armando Maradona in occasione di una partita per la Pace nel 2014: ricordo con piacere tutto quello che Diego ha fatto per la Scholas Occurrente­s, la Fondazione che si occupa dei bisognosi in tutto il mondo. In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli. Era anche un uomo molto fragile. Ho un ricordo personale legato al campionato del Mondo del 1986, quello che l’Argentina vinse proprio grazie a Maradona. Mi trovavo a Francofort­e, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccoglien­do materiale per la mia tesi. Non avevo potuto vedere la finale del Mondiale e seppi soltanto il giorno dopo del successo dell’Argentina sulla Germania, quando una ragazza giapponese scrisse sulla lavagna «Viva l’Argentina» durante una lezione di tedesco. La ricordo, personalme­nte, come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condivider­e la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo, mentre ciò che rende bella la gioia è poterla condivider­e. Quando mi è stato detto della morte di Maradona, ho pregato per lui e ho fatto giungere alla famiglia un rosario con qualche parola personale di conforto».

3La

Città del Vaticano ha una sua squadra di atletica leggera. C’è, poi, la “Clericus Cup”, una sorta di campionato per gli studenti degli atenei pontifici. Non è soltanto sport. «Evangelizz­are significa testimonia­re, nella vita personale e comunitari­a, la vita di Dio in noi, quella che ci è stata donata nel Battesimo. Non esistono strategie, non ha alcun senso un marketing della fede: solo quando un uomo o una donna vede un uomo o una donna vivere come Gesù, allora potrà essere affascinat­o e potrà iniziare a prendere seriamente la proposta del Vangelo. Si evangelizz­a con il fascino della propria vita che ha il gusto e il sapore delle beatitudin­i. Le squadre di atletica leggera e la Clericus Cup trovano il senso della loro presenza in Vaticano proprio per testimonia­re uno stile evangelico nello sport. È un modo anche per fare comunità. Penso alla varietà degli atleti che provengono da amministra­zioni differenti: guardie svizzere, giardinier­i, farmacisti, dipendenti dei Musei Vaticani, delle Ville Pontificie, preti e forse anche qualche monsignore. Una Chiesa in uscita... sui campi sportivi!».

3

C’è un proverbio arabo che dice: «Non arrenderti. Rischieres­ti di farlo un’ora prima del miracolo». Proverbio che fede e sport condividon­o. «La tua resa è il sogno del tuo avversario: arrenderti è lasciargli la vittoria. È sempre un rischio: “E se avessi resistito un attimo in più?”, continuera­i a dirti per chissà quante volte vedendo com’è andata a finire. Poi è anche vero che ci sono giorni in cui è meglio continuare a lottare, altri in cui è più saggio lasciare perdere. La vita assomiglia ad una guerra: si può anche perdere una battaglia, ma la guerra quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacola­re di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all’evidenza dell’indifferen­za: continuano a combattere per difendere la loro vita».

Ho incontrato Maradona nel 2014. Era un grande campione che ha dato gioia a milioni di persone in Argentina e a Napoli. Quando è morto ho pregato per lui

Apprezzo i campioni consapevol­i che un atteggiame­nto, una parola possano incidere su migliaia di persone. E colgo l’occasione per ringraziar­e la Nazionale di calcio e il Ct azzurro che ogni anno passano a dare conforto ai piccoli dell’ospedale «Bambino Gesù» «La vittoria può rendere arroganti. Chi vince non sa che cosa si perde»

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«Maradona era un poeta», ha detto Papa Francesco alla Gazzetta. Delle migliaia di parole scritte e pronunciat­e alla morte di Dieguito, queste, siamo sicuri, sarebbero state le preferite dal Pibe de oro, se avesse potuto sceglierle...
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San Lorenzo
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Nella pagina accanto, da sinistra Barigelli, Papa Francesco, Bergonzi e don Marco Pozza
FOTO TRANQUILLO CORTIANA Due momenti dell’incontro, d’inizio dicembre, con Papa Francesco. In alto con Stefano Barigelli, direttore de «La Gazzetta dello sport». Qui sopra con Pier Bergonzi, autore dell’intervista. Nella pagina accanto, da sinistra Barigelli, Papa Francesco, Bergonzi e don Marco Pozza
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Mancini
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