SANTO PADRE, UNA GRANDE LEZIONE
La cosa davvero straordinaria, nella lunga e impegnata intervista di Papa Francesco alla Gazzetta, è la vicinanza, il senso di prossimità che il lettore percepisce nel rapporto tra questo Pontefice e la vita quotidiana delle persone. È il suo segno. La piramide della Chiesa rovesciata con l’apice riportato vicino alla terra, dove pulsa ogni istante l’esistenza degli umani e si svolge il caos della vita. La religione come sorella e non come regina, il costante ricordare, attraverso i gesti e le parole, che c’è più bisogno della sua presenza dove la sofferenza e l’ingiustizia sono più inaccettabili. E la vita degli esseri umani, primi o ultimi, è fatta anche della dimensione ludica, dell’istante di una gioia o di una delusione difficilmente spiegabili con la ragione. È come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di “appartenere” a una squadra. “Appartenere” è ammettere che da soli non è così bello vivere, esultare, fare festa. Da soli, anche questo è un richiamo costante di Francesco, non ha senso
vivere la vita. Che è sempre comunità, incontro, scambio,
accoglienza, relazione. E per questo il Papa, con una immagine che resterà nella storia dell’umanità, ha parlato della pandemia in mezzo al nulla, sotto la pioggia, per ricongiungere le vite di milioni di esseri umani chiusi nelle loro case,”distanziati”. E poi la citazione di San Paolo utile per dire a ciascuno che esiste un regno delle opportunità, per allontanare l’indifferenza, per immaginare che davvero a tutti sia possibile tutto e che solo le capacità e il talento facciano le differenze. Non altro, non qualcosa che non dipende da te, ma dall’organizzazione sociale o dalle discriminazioni.
Il Papa dice a Stefano Barigelli e Pier Bergonzi che «chi vince non sa che cosa si perde». Vuole andare controvento in un tempo che sembra avere, come suo spirito e pensiero unico, l’icona della vittoria, della ricchezza, del successo. Ad ogni costo, spesso. La sconfitta insegna, aiuta a superare i propri limiti, a non arrendersi: «Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende,
quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi».
Francesco sembra, parlando dello sport, immaginare un mondo possibile e raggiungibile e un ruolo decisivo per la parola religiosa, chiamata, per la sua parte, a rammendare gli strappi prodotti dalla cecità
degli uomini. Francesco è tifoso e competente, sa cosa è una palla di stracci e un canestro fatto con un cestino. Sa che tutto comincia nella polvere, nel gioco, nella ricerca interiore del proprio
talento. Ama lo sport perché ama le persone. E cerca la giustizia, sempre e ovunque. Anche nelle regole dello sport dove conta di più «una sconfitta pulita che una vittoria sporca». Faceva il portiere, da ragazzo, Francesco. Aveva la “pata dura”, la gamba dura, non amava dribblare e non era fortissimo con i piedi. Ma sapeva parare, evitare il peggio, salvare il risultato, attendere e osservare. Sapeva che la sua capitolazione dipendeva non solo dal suo talento ma dal perfetto funzionamento del collettivo, dei suoi compagni di squadra. Il ruolo del portiere è dare sempre fiducia alla sua squadra. E la sua felicità di giocatore dipenderà sempre dagli altri, non solo da se stesso. Perché tutto, nella vita, è relazione, dono. Anche la felicità, quella piccola e gratuita di una vittoria sportiva: «Una felicità da condividere perché se la tengo per me resta un seme, se invece la condivido può diventare un fiore».