BENTORNATE AI PLAYOFF TAMPA COL VECCHIO TOM CLEVELAND COI GIOVANI
Brady a 43 anni ha trascinato i Buccaneers, assenti dal 2007: fuori i “suoi” Patriots. I Browns, con un g.m. trentatreenne, sfatano il tabù che durava dal 2002
Non sai mai dove rimbalzerà una palla ovale. Difficile da addomesticare, difficile da pronosticare. Ecco perché la rivoluzione dei playoff 2020/21 sarà cerchiata di rosso negli annali sacri del football Nfl: accanto alle consuete certezze come i Kansas City Chiefs campioni in carica (e ancora favoriti) o i Green Bay Packers del probabile Mvp Aaron Rodgers, la corsa al Super Bowl LV si arricchisce delle due squadre che da più tempo non assaporavano il piacere della post season, tra frizzi e lazzi del resto della concorrenza. Ebbene sì: i Tampa Bay Buccaneers, assenti dal 2007, e soprattutto i Cleveland Browns, che mancavano dal 2002 ed erano diventati sostanzialmente la macchietta della lega, sono finalmente della partita. E non da comparse. Se ai playoff approda Tom Brady, del resto, come fai a tenerlo fuori dai pronostici? Ne ha giocati 18 nelle ultime 20 stagioni, vincendo sei Super Bowl, e quello di quest’anno si gioca il 7 febbraio a casa sua, al Raymond James Stadium di Tampa Bay.
L’uomo infinito
Già: nella stagione in cui i Patriots, abbandonati a marzo dopo un ventennio di reciproca seduzione, guarderanno gli altri dalla tv (e non accadeva dal 2008), i Buccaneers tornano ad alzare la voce. Alla faccia di chi sosteneva che il Più Grande avesse scelto la Florida solo per svernare e lucrare l’ultimo lussuoso contratto di una carriera leggendaria. Brady è partito maluccio, come si poteva prevedere per un quasi quarantaquattrenne (li farà in agosto) che tra l’altro, causa pandemia, non aveva potuto approfondire la chimica con i nuovi compagni perché il precampionato è stato ridottissimo. Ma quando l’annata ha cominciato a scaldarsi, il braccio di Tom è tornato bionico: nelle ultime sette partite ha sempre effettuato almeno due passaggi da touchdown e con i quattro di domenica è arrivato a 40 in totale, ovviamente record di franchigia per i Bucs. Un altro dei mille primati di un fuoriclasse infinito: «Quello che mi succede come quarterback, riflette ciò che facciamo come intero reparto offensivo. Mi piace giocare con questi ragazzi, siamo un gruppo fantastico. In fondo è solo football: vince chi gestisce meglio la pressione». Sembra facile, se sei The Goat. Intanto, il suo carisma ha rivitalizzato il tight end Gronkowski, sodale preferito per i suoi lanci nella lunga dinastia di New England e tornato dal ritiro (e da un’esperienza nel wrestling) solo per poter di nuovo giocare con lui; ha convinto il management a dare una chance ad Antonio Brown, ricevitore fenomenale con la macchia di una denuncia per violenza domestica che in pratica gli è costata più di un anno di stop, fino ai due td di domenica, i primi dopo 462 giorni; ha esaltato le qualità dell’altro ricevitore Mike Evans, unico giocatore Nfl ad andare oltre le 1000 yard nei primi 7 anni di carriera.
Il riscatto dei giovani
Se la rinascita dei Buccaneers è decisamente figlia di un uomo solo al comando, l’attesa resurrezione dei Cleveland Browns è invece l’apoteosi del lavoro di gruppo dopo vent’anni di egoismi e scarsa competenza. Dal 1999, anno in cui la franchigia è tornata in città (Art Modell, il precedente proprietario, cedette i diritti a Baltimore nel 1995 e per tre stagioni sulle rive del lago Erie non si vide football), sono riusciti a costruirsi la fama di barzelletta della Nfl, tra scelte scellerate al draft, continui cam
bi di allenatori (12) e general manager (9) e una dirigenza totalmente scollegata dalla proprietà. Una sola apparizione ai playoff (quella del 2002, appunto) e una litania di annate perdenti da mani nei capelli (4-44 il record tra il 2015 e il 2017). Un abisso così profondo da aver contagiato perfino i tifosi, tra i più appassionati della lega nonostante le traversie: d’altronde, il football è nato in Ohio a un’ora d’auto dalla città e fino a metà degli anni 60 i Browns erano stati una potenza della vecchia Nfl. Ma il disastro del nuovo millennio pareva senza rete di protezione. Nel 2007 Tim Brokaw, un pubblicitario locale, crea una maglietta in cui elenca i nomi di tutti i giocatori-bidone passati per Cleveland, ciascuno scritto a mano su nastro adesivo, barrato e apposto sotto il precedente, creando una sorta di colonna infame della delusione. All’inizio sono 10 nomi, ma l’elenco cresce a dismisura e arriva fino a 29. Alla fine, Brokaw decide di mostrare quotidianamente quell’insolita uniforme appendendola a un manichino che dà su una finestra del suo ufficio, di fronte allo stadio dei Browns: i tifosi, ogni volta che escono dopo una sconfitta, sciamano in processione davanti all’insolito feticcio. Nel frattempo il comico Mike Polk, storico fan, ribattezza il FirstEnergy Stadium «la fabbrica della tristezza» e paragona la squadra al personaggio principale di «Carrie», uno dei capolavori di Stephen King: «Siamo appena stati incoronati regine del ballo, tutti esultano e noi sorridiamo e salutiamo, beatamente inconsapevoli del secchio di sangue che penzola sopra la nostra testa». Eppure, le ultime versioni dei Browns avrebbero il talento per spezzare la maledizione, tanto che nel 2019 gli esperti li pronosticano addirittura come sesta favorita per il Super Bowl. E invece vincono appena sei partite, l’occasione per una nuova rivoluzione: il proprietario Jimmy Haslam, a gennaio 2020, chiama come allenatore il trentottenne Kevin Stefanski, alla prima esperienza da head coach, e dietro la scrivania mette Andrew Berry, 33 anni, il g.m. più giovane di tutta la Nfl. Una scelta che fa arricciare il naso a più di un tifoso: Berry era direttore del personale a metà del decennio, l’epoca più buia, prima di trasferirsi a Philadelphia. Ma proprio da quella esperienza dirà di aver ricavato nuove consapevolezze: «Stando due anni lontano, mi sono reso conto di ciò che era sempre mancato ai Browns: la sinergia tra tutti i componenti dell’organizzazione». La catena staff tecnico, staff dirigenziale, proprietà: ciò che è sempre stato normale nelle realtà vincenti e che a Cleveland veniva sempre sepolto sotto la coltre degli interessi personali. Oggi, a stagione appena terminata, Stefanski e Berry sono decisamente in corsa per il titolo di allenatore e di general manager dell’anno. Il coach ha creato una difesa di ferro attorno a Myles Garrett, uno dei più tremendi cacciatori di quarterback della lega, premiato a inizio stagione con un contratto da 102 milioni di euro per 5 anni. È uno dei ragazzi terribili della classe 1995 che possono assicurare alla franchigia un futuro abbagliante. Hanno 25 anni pure i running back Kareem Hunt e Nick Chubb, che con il loro gioco di corsa hanno tolto pressione al quarterback Baker Mayfield (altro coetaneo), prima scelta assoluta del 2018 che rischiava di perdersi come già accaduto a tutti i messia vanamente attesi da Cleveland nel ruolo più delicato del football. Chubb, un armadietto semovente di 180 centimetri e 103 chili, ha saltato quattro partite per un’ammaccatura ai legamenti di un ginocchio ma è riuscito comunque a compilare un’altra stagione da più di 1000 yard e a diventare il corridore più prolifico (12 mete) del team dal 1968. Ora è atteso dalla difesa degli Steelers, i rivali storici che hanno sempre eliminato i Browns nelle ultime due partite giocate ai playoff. Ma il vento è cambiato, come ricorda Jim Brown, uno degli eroi della squadra che dominava negli anni 60: «Sembra che Gesù si sia finalmente messo al lavoro». Benedicendo Cleveland.
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