La Gazzetta dello Sport

L’eroe dei 3 mondi

Arabia dopo Africa e Sudamerica Peterhanse­l padrone della Dakar

- di Paolo Ianieri

Il francese firma il 14° successo e bacchetta Al Attiyah: «Si lamenta, ma con meno ego avrebbe vinto lui»

«Se lo chiamano Monsieur Dakar un motivo ci sarà, no?». Carlos Sainz, che sognava il bis ma si è dovuto accontenta­re del 3° posto, non ci gira intorno nel celebrare Stephane Peterhanse­l, suo compagno alla Mini X-Raid ma soprattutt­o sempre più Leggenda dei rally raid. Aveva detto, Peter, di «essere venuto per divertirsi», alla vigilia del via da quella Gedda che ieri lo ha accolto vincitore della 43a edizione, e alla fine si è divertito più di tutti: 14° trionfo in 32 edizioni corse, quasi una su due, che a pensarci è qualcosa di sovrumano; primo a imporsi nei tre continenti — Africa, Sudamerica e ora Asia — sui quali finora la corsa ideata da Thierry Sabine e oggi diretta da David Castera ha posato le ruote; uno dei soli tre al mondo a vincere in moto (6 volte) e auto (8), Hubert Auriol, il primo, che se n’è andato nei giorni del rally, il terzo Nani Roma, gran 5° con il Buggy della Prodrive che fino a due mesi fa non esisteva.

Dallo skate alla moto

Ha viaggiato sempre veloce e in equilibrio Peterhanse­l, fin da quando da bambino si appassionò allo skateboard: a 14 anni si portò a casa il titolo francese di slalom, figura libera, discesa e combinata e con la nazionale partecipò pure agli Europei. In suo onore Vesoul, il paese dove è cresciuto, gli ha intitolato lo skatepark, ma gira e rigira, il pensiero tornava sempre lì, a quella moto da cross sulla quale era salito a 8 anni spronato da papà Jean Pierre e con la quale girava felice nei boschi vicino a casa. Le prime gare di enduro arrivarono iscrivendo­si da fuorilegge col nome del padre, con inevitabil­i squalifich­e una volta scoperto, ma ormai il dado era tratto, il futuro era la moto e il sogno diventare pilota profession­ista. L’incontro che gli cambia la vita, quando è già un nome dell’enduro francese (11 titoli, 5 Sei Giorni), è quello con Jacque-Claude Olivier, il potente uomo di Yamaha Francia, che nel 1987 lo ingaggia: da lì alla Dakar il passo è breve.

La prima nel cuore

Al debutto nel 1988 è 18°, è 4° l’anno dopo, vince la speciale e prende la testa della corsa nel giorno della nascita del figlio Nicolas nell’edizione 1990, ma poi si perde nel deserto e si ritira. Ma è questione di tempo, perché nel 1991 inizia l’era Peterhanse­l: nei successivi 8 anni vince 6 volte (la Yamaha non corre nel 1994 ed Edi Orioli si porta a casa quella del 1996 ) e quando a fine ‘98 passa alle auto, è già Monsieur Dakar. «Vincere 14 volte è importante, e ognuna è speciale — può permetters­i di rilassarsi Peterhanse­l —. Questa lo diventerà molto, perché anche se da fuori è sembrato facile, avevamo tutto da perdere. Ma se devo fare una classifica, la più speciale di tutte resta la prima, quella del 1991. Perché era quella che avevo sognato tanto. Sono passati 30 anni, sono un privilegia­to e un uomo felice». Con un solo rimpianto, quello di non aver corso la Dakar con la moglie Andrea Mayer come navigatric­e: un anno fa l’ex motociclis­ta fu costretta al forfait un paio di settimane prima del debutto dell’Arabia Saudita per un problema fisico, il recupero auspicato non c’è stato e così a dividere l’abitacolo è arrivato Edouard Boulanger. «Un ex pilota di moto come me, abbiamo lo stesso spirito e lui è stato una chiave importante del successo. Ha tutto per diventare il miglior co-pilota dei rally raid» certifica Peterhanse­l.

Nasser stia zitto

Fedele alla Yamaha, le 8 vittorie auto sono arrivate con Mitsubishi (3), Mini (3) e Peugeot (2). Come re Mida che qualsiasi cosa toccasse la trasformav­a in oro, con impegno e ossessione maniacale, Peterhanse­l ha vinto ogni sfida. La prossima sarà l’Audi, che nel 2022 sbarcherà con un progetto elettrico, affidato ancora a Sven Quandt, il n.1 della Q-Motorsport che ieri gongolava per la seconda vittoria Mini in 2 anni? Per capirlo servirà qualche mese, intanto Peterhanse­l può godersi questo giorno, non prima di aver zittito Nasser Al-Attiyah, 2° anche quest’anno nonostante 6 tappe vinte, che si è lamentato dello svantaggio del pick-up Toyota rispetto al buggy rivale: «Non sempre ho vinto, però mi hanno insegnato che quando si perde non si piange. Quello di Nasser è solo un problema di ego, ne avesse avuto meno forse avrebbe vinto lui. Io ho cercato di non infiammarm­i quando non ero rapido come lui, che invece ha spinto da matti per vincere già il prologo. La Dakar lui l’ha persa il primo giorno».

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Stephane Peterhanse­l, 55 anni, portato in trionfo: sotto con il navigatore Eduard Boulanger sulla Mini Buggy già prima un anno fa con Sainz
AFP La gioia con la squadra Stephane Peterhanse­l, 55 anni, portato in trionfo: sotto con il navigatore Eduard Boulanger sulla Mini Buggy già prima un anno fa con Sainz
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