Peterhansel, strano destino per il signore della Dakar
Primo in sella e primo al volante, capace di domare il deserto del Sahara e di schivare le trappole della savana in Africa; di arrampicarsi sugli insidiosi sentieri andini come sulle strade sterrate che si snodano tra Perù, Cile e Argentina, quando per i rischi legati al terrorismo la corsa è stata costretta a emigrare alla fine del mondo, come direbbe Papa Francesco. Mancava alla collezione la conquista della penisola arabica che da due anni ospita il rally raid più famoso al mondo. Missione compiuta, con il minimo sforzo: una vittoria di tappa contro le 6 del primo inseguitore, il principe qatariota Al Attiyah. Da trent’anni, cioè da quando in sella alla Yamaha conquistò il primo dei suoi 14 successi, il nome della Dakar è indissolubilmente legato a quello di Stephane Peterhansel.
Solo lui, Nani Roma e Hubert Auriol, scomparso il 10 gennaio, sono stati capaci di vincere prima in moto e poi in auto, quando l’età e la prudenza l’hanno suggerito, una corsa massacrante come questa (7 mila chilometri in meno di due settimane), dove ogni giorno si rischia la vita (come tragicamente dimostrato ieri dalla scomparsa di Pierre Cherpin). Eppure il destino di Peterhansel è curioso: tranne che per gli appassionati dei rally raid, i riflettori planetari su questo francese di 55 anni, che da ragazzino vinceva con lo skateboard, si accendono solo una volta all’anno. Quando scatta questa che dal 1979 è la prima vera corsa dell’anno. Poi cala il sipario e di Peterhansel ci si tornerà a occupare il prossimo Capodanno, come per il concerto nella sala dorata del Musikverein di Vienna. Perché c’è da scommetterci che nel 2022 Stephane sarà lì, inesorabile come la marcia di Radetzky.