Nome, colori, città guai a chi li tocca Il resto però si muove
iuto, adesso vogliono togliermi anche il nome della mia beneamata Internazionale, detta Inter? Niente più proprietari italiani e orgogliosamente nerazzurri, presto addio allo stadio: in che cosa volete trasformarci? Il tifo è tradizione, i racconti di mio nonno, la passione tramandata per generazioni. Non mi riconosco più in questo calcio.
Afarturi@rcs.it
Adele Casti
Non precipitiamo, signora: la società ha smentito il cambio di denominazione. S’è parlato di un rinnovo del logo (già portofranco@rcs.it avvenuto in passato, peraltro), con la valorizzazione del nome di Milano, ormai una sorta di brand prestigioso in sé e conosciuto in tutto il mondo, accanto a Inter. Capisco però l’allarme di molti tifosi, che da anni sono colpiti da piccoli attentati alla riconoscibilità della propria squadra, a partire da seconde e terze maglie, spesso assurde. Il nome rimane sacro, coincide con l’identità, è intoccabile, anche se abbreviato, come appunto Inter, Juve. O anche Italia, visto che sulla “carta d’identità”, cioè nella Costituzione, il nostro Paese si chiama Repubblica Italiana, denominazione quasi mai usata. «Nomina sunt omina», dicevano i latini: i nomi sono gli uomini. Anche i colori non possono essere toccati, sono il primo simbolo, la bandiera, l’anima stessa di un club.
Ma alla fine dobbiamo intenderci sul significato della parola tradizione, che non coincide con immutabilità, altrimenti squarteremmo ancora animali per predire il futuro esaminandone le viscere. Tutto è in trasformazione, anche se l’impulso a ritualizzare il passato è un fondamento della nostra umanità e pure del tifo calcistico. C’è dunque un equilibrio fra movimento e staticità in cui siamo immersi, senza nemmeno saperlo. Qualcosa viaggia più velocemente di altro: per esempio, la proprietà straniera, cui lei accenna, è un fatto ormai digerito. Ma se ce l’avessero predetto anche solo vent’anni fa non ci avremmo creduto. Nostalgie delle proprietà autarchiche ce l’hanno solo i più datati fra di noi. Su questo versante, potremmo anzi concludere che l’interesse di magnati, società e fondi stranieri sono un segno di apprezzabile vitalità del calcio italiano o del singolo club. Anche lo stadio, signora, è alla lunga una battaglia persa, soprattutto se parliamo di impianti concepiti un secolo fa. Qualcuno è già improponibile.
Alla fine le radici, quelle che non si possono tagliare senza condannare a morte l’albero, restano proprio il nome, i colori sociali e la città di nascita. Quest’ultimo punto è peraltro un dato solo europeo perché nel mondo dello sport professionistico Usa i trasferimenti di squadre fra una metropoli e l’altra sono avvenuti. Su tutto il resto possiamo frenare, resistere, puntare i piedi: otterremo soltanto rinvii, perché il cambiamento è nella natura delle cose.