La Gazzetta dello Sport

Non solo Schwazer Quell’antidoping che semina dubbi

- di Valerio Piccioni

C’è un doping che per la storia dello sport non è doping. Perché non è stato mai scoperto. Non solo nella famigerata Germania Est. Un doping che invade tuttora albi d’oro, medaglieri olimpici, cronologie di record del mondo. Per questo, una parte dell’opinione pubblica - e confessiam­o il peccato, anche noi - è caduta nella trappola di considerar­e un caso di positività, tanto più se illustre, una sorta di rivincita risarcitor­ia, la “vendetta” dello sport pulito dopo tanta impotenza, all’insegna dell’almeno stavolta vi abbiamo beccato. Gli ultimi anni, con diversi casi fatti di opacità e dubbi, citiamo per tutti il caso della condanna di Niccolò Mornati, hanno messo in crisi questo stato d’animo. E il caso Schwazer, che ieri ha vissuto il suo capolinea olimpico con la decisione del Tribunale federale svizzero di negare la sospensiva al marciatore per gareggiare, ha aggiunto un ulteriore carico.

Per tutto questo chiediamo scusa a tutti i passati, presenti o futuri Alex Schwazer che non hanno mai vinto un’Olimpiade, che non hanno vicino un tecnico coraggioso come Sandro Donati e che hanno faticato o fatichereb­bero a trovare uno spazio per difendersi almeno sui media. E che fanno i conti con un sistema di garanzie che fa acqua da diverse parti. Prendete Schwazer. Sei positivo e te lo dicono 40 giorni dopo, poi ti lasciano in mezzo al dubbio - competente l’Italia? No la Iaaf, no il Tas - quindi ti invitano, si fa per dire, a Rio per un processo che si sarebbe potuto svolgere tranquilla­mente in Europa. Cinque anni dopo, poi, Wada e World Athletics (ma perché sempre insieme? La separazion­e dei poteri non vale per il sistema sportivo...) fanno melina, un’ordinanza di un giudice è liquidata con un’alzata di spalle, il Tribunale federale svizzero, un’atipica “cassazione” dopo la “cassazione” del sistema sportivo (le due “cassazioni” vivono nella stessa città, Losanna), concede tempo all’accusa e se ne infischia di una richiesta minima della difesa, rispondete­ci prima che passi l’ultimo treno per la qualificaz­ione.

Intendiamo­ci, il doping esiste, eccome se esiste, e certo i controlli sono l’arma più importante per scoprirlo. Ma tutti devono avere la possibilit­à di dimostrare la propria innocenza. Al di là del cognome e dei soldi che bisogna investire per difendersi(per fare un ricorso ce ne vogliono tanti). Questo sistema è lo stesso che ha trasformat­o (vedi caso Iaaf dell’era Diack) l’antidoping in un ricatto, smascherat­o non dalle istituzion­i sportive, che all’inizio se ne sono totalmente infischiat­i delle denunce di atleti disperati, vedi caso Russia, ma soprattutt­o dal giornalism­o e dalla magistratu­ra. E che si approfitta di codici sempre molto “interpreta­tivi” (basti pensare alla differenza di trattament­o fra sport e sport). Schwazer non andrà a Tokyo, qualcuno stappa lo champagne, altri si arrabbiano. Ma in mezzo al guado restano queste domande. Che non finiscono con Schwazer o con Tokyo, ma restano come mine vaganti in mezzo allo sport.

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