PERCHÉ LAUTARO ANIMA DELL’INTER PUÒ ROVINARE LA FESTA AL PEP
Ci ha messo un po’ di tempo e non è stato un viaggio facile, ma alla fine Lautaro Martinez è riuscito a prendersi l’Inter. Si è fatto anima e corteccia, infilandosi sul braccio il simbolo di capitano come un’arma in più da spendere, non una tacca da esibire. Se i nerazzurri possono guardare verso Istanbul, e il Manchester City, senza rassegnarsi all’epilogo di un destino segnato lo devono soprattutto a lui. Lautaro è un leader silenzioso, di quelli che quando si alzano le onde sta ritto sul cassero e trascina la squadra nel porto: il Milan affondato nella semifinale Champions e la Fiorentina, ribaltata in coppa con due siluri nella notte romana, restano dei buoni esempi. Non è sempre stato così. Nel corso degli anni Lautaro non aveva saldamente garantito questa impressione, rimanendo piuttosto in bilico tra i due vertici del suo bipolarismo: Toro scatenato, e ogni tanto semplicemente seduto. L’ultimo forte sintomo della dipendenza da Lautaro l’Inter lo aveva accusato tra marzo e aprile quando – se non segnava l’argentino – Inzaghi non riusciva più a vincere. Così, il tormentone di primavera era diventato quel “no Toro, no party” che dava il senso di un labirinto nel quale sembrava che i nerazzurri si fossero persi. Di solito, nei momenti di down, Lautaro trovava sollievo accanto a Leo Messi nella nazionale argentina. Con l’Albiceleste si rigenerava. La Finalissima di un anno fa a Wembley, tra gli azzurri di Mancini campioni d’Europa e la Selecciòn di Scaloni regina sudamericana, ci racconta ancora qualcosa. Lautaro aveva sbloccato il match prima di offrire l’assist del 2-0 a Di Maria. Poi gli dev’essere successo qualcosa. I Mondiali, per lui, continuano ad avere un retrogusto un po’ amaro. Nel 2018, durante
l’estate dell’arrivo all’Inter, Sampaoli l’aveva lasciato a casa sostenendo che non avesse ancora il cambio di velocità dei giocatori europei. Nel novembre scorso, Lautaro si era presentato da titolarissimo in Qatar, ma l’esordio con l’Arabia Saudita era stato un flop. Gli avevano annullato due gol prima della rimonta saudita e di una sconfitta allarmante per Messi e compagni. Per non tornare a casa, l’Argentina doveva battere il Messico: finché Lautaro era rimasto in campo i gol non arrivavano. Uscito lui, ed entrato Julian Alvarez, la Selecciòn si era messa a volare, fino al titolo conquistato in finale con la Francia. Alvarez è diventato un po’ quello che nell’Italia dell’82 era Paolo Rossi o nel ’90 Schillaci. Invece di consacrarsi nel Mondiale di Messi, Lautaro aveva dovuto
cedere il passo al giovane attaccante che Pep Guardiola aveva prelevato dal River. Il bello è che, anziché arrendersi, il Toro ha saputo reagire, rigenerandosi nell’Inter. Il 10 giugno, a Istanbul, Lautaro si troverà davanti Alvarez da avversario, con un rapporto di forza capovolto. Il Toro, leader e capitano dell’Inter sta completando la migliore stagione della sua carriera: non aveva mai segnato tanto (27 gol e 10 assist nelle 54 partite giocate finora). Il giovane Julian – che in Argentina chiamano Ragno – nel City è invece la riserva del fenomenale Haaland, gioca a strappi e frammenti anche se con buona qualità. Uno dei due vincerà Mondiale e Champions nella stessa stagione. Non capita molto spesso. Il calcio è fatto anche di piccoli segnali, sottili premonizioni. Qualche giorno fa il vecchio Diego Milito, autore dei due gol al Bayern nell’anno dello storico Triplete, ha augurato a Lautaro di vincere la Champions come era riuscito alla sua Inter.
C’è già stato un passaggio di testimone tra i due argentini: il 31 ottobre 2015, nel giorno del debutto con il Racing Avellaneda, Lautaro era entrato in campo sostituendo proprio il Principe Milito. A Istanbul potremmo assistere a un nuovo abbraccio tra i due.
Certo non è probabile, il City è più forte, ma se c’è uno che può rovinare la festa al Pep e ad Haaland è proprio lui, Lautaro. Sappiamo. Basta che il Toro si scateni e non rimanga seduto. Servono un gol subito e l’Inter perfetta. Può succedere. Poi, chissà.