I REDS E IL SUICIDIO DI BARTOLOMEI E UNA STORIA SCRITTA A MAGGIO
Nel 1984 il ko col Liverpool, nel 1994 la morte del capitano: era il 30, oggi è il 31 e la Roma vuole un altro finale
APiazza Testaccio c’è un murale che abbraccia più generazioni. Dà su un quadrato di cemento ben curato dove i bambini giocano a pallone imitando il sinistro di Dybala. È il nucleo di un quartiere dove giovani coppie si danno il primo appuntamento sotto la fontana, dozzine di volti stanchi riposano sulle panchine sotto gli alberi e la tradizione incrocia presente e futuro. La street artist Laika ha preso in prestito il muro di un palazzo per raffigurare un po’ d’amore, in un feudo del romanismo.
Quel murales Il disegno è semplice, pulito: c’è Lorenzo Pellegrini che festeggia spensierato sulle spalle di Agostino Di Bartolomei. Lo fa sollevando al cielo la Conference League vinta a Tirana un anno fa. Il numero 7 giallorosso sorride fiero, sembra gridare qualcosa alla folla, mentre Diba lo porta in braccio con occhi tranquilli e seri. Com’era lui, del resto.
Il vessillo in porto Capitano silenzioso, leader razionale, bandiera di poche parole. Nel murale, Ago sorregge il portatore del vessillo europeo approdato in porto dopo trent’anni di delusioni e occasioni mancate, scacciando via il fantasma di Bruce Grobbelaar, il portiere dei Reds che ballava sulla linea distraendo i rigoristi dell'Olimpico. La storia di Agostino, morto suicida il 30 maggio 1994, dieci anni dopo la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool, è tutta in una manciata di parole rilasciate a Gian Piero Galeazzi il primo maggio 1983, giorno di Roma-Avellino, terzultima di campionato. «L’equipaggio chiede: andremo in porto oppure no?», domanda Galeazzi. Ago lo guarda dritto negli occhi, non alza il sopracciglio, tanto meno sorride, ma alla fine dà un titolo rimasto negli annali: «Andremo sicuramente in porto. Speriamo di entrarci col vessillo». Andrà proprio così, ma non quel pomeriggio. I giallorossi vincono 2-0. Ago fulmina un giovane Stefano Tacconi con un destro di mezzo collo da fuori area e scivola sull’erba bagnata allargando le braccia, liberando così tutte le emozioni. Carlo Ancelotti si inginocchia e lo abbraccia. È la foto simbolo di una generazione per generazioni, da tramandare a quei bambini che giocano a Piazza Testaccio tutti i giorni sotto gli occhi dipinti dei due capitani di ieri e di oggi. La Roma festeggerà lo scudetto contro il Genoa una settimana dopo, ma per i romanisti il tricolore arriva in quel giorno di festa sotto la pioggia. Come se il rosso delle maglie, all'epoca griffate Barilla e con il lupetto di Gratton in bella vista, abbia voluto aspettare il giallo del sole per festeggiare il titolo, sposandolo in un caldo pomeriggio di inizio maggio.
Ricorrenze Il destino ha dato un segnale alla Roma. La finale di Europa League contro il Siviglia si giocherà ventinove anni e un giorno dopo la morte di Ago, che il 30 maggio 1994 decise di farla finita sparandosi un colpo di pistola al petto sul terrazzo di casa, a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno. Indossava pantaloncini corti, una maglietta beige e non portava né calzini né scarpe. La sera prima aveva cenato insieme a parenti, bambini e amici stretti. Una tavolata di quindici persone, una partita a frisbee prima di dormire. «Era sereno», racconterà la moglie Marisa De Santis, madre del ventenne Gianmarco e di Luca, il più piccolo, quella mattina a scuola. All’epoca aveva undici anni. Da tempo si batte contro la detenzione di pistole e fucili. Agostino aveva il porto d’armi e si sparò con una Smith & Wesson 38. Luca ha sempre parlato poco del padre. A marzo ha raccontato al Corriere della Sera di averlo perdonato per il senso di colpa perenne che si è portato dietro per un paio di decenni: «Per amare persone che sbagliano devi essere in pace con te stesso. Io mi sono sforzato di perdonarlo per quello che mi ha tolto, adesso sto provando ad amarlo». L’ha sempre chiamato per nome, da un po’ ha ripreso a parlare di lui chiamandolo papà. Quel maledetto 30 maggio l’aveva salutato per andare a scuola e sostenere un compito delicato. «Lui era in terrazza come al solito, il sole batteva già alto, gli diedi un bacio e poi andai». Come Agostino.
Destino e date Di Bartolomei ha giocato a Budapest una sola volta: era il 20 maggio 1978, Mtk Budapest-Roma. Una sconfitta per 3-0 alla fase a gironi della vecchia Coppa Intertoto. In porta c’era Franco Tancredi, in mezzo Giancarlo De Sisti, l’allenatore era Gustavo Giagnoni. I giallorossi incassarono tre schiaffi al Nándor Hidegkuti Stadion, impianto dedicato al primo falso nove della storia del calcio, una delle stelle della «squadra d’oro» ungherese in cui brillava Ferenc Puskas. Lo stadio dove i giallorossi sfideranno gli spagnoli è dedicato a lui. Storie di incroci e destino, tornato a svolazzare sopra i capi chini dei romanisti divorati dall’ansia. La parte giallorossa della Capitale oscilla tra sogno e paura. La tensione è così fina che si infila nella cruna di un ago. Anzi, di Ago. Perché il fato ha scelto di far giocare la finale più importante degli ultimi quarant’anni giallorossi il giorno successivo a due stilettate dritte al cuore: la finale persa ai rigori contro il Liverpool in un Olimpico tinto a festa e il suicidio di Diba. Trentanove e ventinove anni dopo a cui si aggiunge un giorno, uno solo, come se qualcuno volesse mandare un messaggio a tutta Roma, abbracciandola forte in un’altra sera di maggio per dirle che stavolta che è un’altra vita, un’altra finale, un’altra epoca, e magari Laika disegnerà un altro murale, con Pellegrini di nuovo sulle spalle di Ago. Ieri Luca ha scritto così sui social: «Sarebbe bello iniziare questi trent’anni di lontananza siderale con un botto diverso. Uno di gioia». Per papà. Che aspetta tutti al porto col vessillo.
Tancredi
Quando parlava, stavamo tutti zitti. Pensava prima a noi e poi a se stesso
Totti
Ago è la storia della Roma, la storia di questa maglia. Lui è il Capitano
Conti
Intelligente, un leader, un fratello. Agostino capiva il calcio in modo unico