INZAGHI, L’INNOVATORE CHE SA MIGLIORARE IL GIOCO E I GIOCATORI
Il tecnico dell’inter sfugge alle definizioni. Abbina qualità e concretezza, ma il suo vero segreto è l’arte di portare i singoli al top
Il miglior complimento è arrivato dal suo prossimo avversario, Daniele De Rossi. Già, perché - parlando della prossima sfida della Roma - era normale che qualcuno gli chiedesse dell’Inter. Meno normale che, uscendo dall’ovvietà di alcune risposte, il giallorosso aggiungesse il suo personale commento alla prossima avversaria. «Non è solo forte, perché questo è sotto gli occhi di tutti. Ma - ed è merito di Inzaghi - piuttosto gioca bene». Un giusto riconoscimento in un mondo che tende spesso a semplificare, addirittura a volte a banalizzare. Già, perché abbiamo passato gli ultimi anni in quel faticoso labirinto alimentato dal dibattito tra giochisti e risultatisti. Come se davvero gli allenatori potessero essere ingabbiati in due categorie. Quelli - secondo una corrente di pensiero - che sono attratti dal mito dello spettacolo, e di conseguenza finiscono per innamorarsi delle proprie idee. E quelli che, rifiutando invece l’estetica, si concentrano soltanto sull’aspetto pratico. Una discussione, se ci pensate, surreale: perché i giochisti in fondo pensano che quello sia semplicemente il modo per arrivare al risultato. E i risultatisti cercano di fare altrettanto con un atteggiamento - magari più prudente o più nervoso - che è comunque il loro gioco.
La premessa serve per rispondere all’interrogativo più incredibile che un osservatore possa sentirsi rivolgere: ma come fai ad apprezzare - allo stesso modo - Capello o Zeman, Allegri o Sarri? La risposta è semplice: perché
la vera differenza di un allenatore è nella sua capacità di promuovere (e non insegnare, perché a certi livelli è impossibile) un’idea di calcio, di dare stabilità ed equilibrio alla propria squadra (anzi al proprio gruppo) e, attraverso tutto questo, far crescere le individualità nel collettivo. L’identikit, e non è un’esagerazione, di Simone Inzaghi, che guida sicuramente una squadra forte, ma - come ha profondamente semplificato De Rossi - soprattutto gioca bene.
Che vuol dire portare tutti a un picco di rendimento.
Ecco, è questo che colpisce dell’Inter, dei suoi calciatori superiori e del lavoro di uno staff - con a capo il suo pilota - giustamente concentrato sull’obiettivo principale: valorizzare tutte le risorse. È successo negli anni scorsi e adesso ancora di più: in una squadra che è cresciuta nel valore individuale e di conseguenza in quello generale. Non c’è dubbio che Acerbi sia sempre stato un ottimo difensore: ma con Inzaghi ha trovato - negli spazi ritagliati su misura - una dimensione superiore. Non c’è dubbio che Darmian stia vivendo una seconda giovinezza e Bastoni abbia scoperto con gli anni di essere anche il primo incursore nerazzurro. Che Di Marco, arrivato dal Verona per arricchire l’organico, sia diventato un insostituibile. Non c’è dubbio che il più forte centrocampo d’Italia - e tra i primissimi nel mondo - sia anche il frutto di un lavoro sui singoli. Di Calhanoglu e della sua trasformazione si sa tutto, ma non avete l’impressione che Barella sia cresciuto ulteriormente e Mkhitaryan abbia trovato una centralità assoluta, nel mettere insieme capacità di strappo e di ricamo? O che Thuram - otto gol di media nei quattro anni al Borussia, gli stessi dopo 22 partite in nerazzurro - si stia specializzando nel riempire improvvisamente l’area?
Insomma
l’Inter è diventata negli anni una straordinaria orchestra, con un gruppo di splendidi solisti che hanno scoperto il gusto di volersi e potersi migliorare ancora. Seguendo un allenatore che sa motivare, correggere, esaltare le caratteristiche di ogni calciatore, senza mai pensare di potersi sostituire a loro.
Evitando di partecipare a quello stucchevole dibattito. Sì, perché - per mettere a tacere le due fazioni - basterebbe chiedere: ma Simone Inzaghi, secondo voi, è un giochista o un risultatista? Impossibile, a voler essere sinceri, affibbiargli un’appartenenza. Inzaghi è piuttosto un innovatore nella tradizione, uno che - come altri - viene raccontato come un innamorato del 3-5-2, per poi scoprire che Bastoni e Pavard vanno a chiudere il cerchio sulla trequarti, o che Lautaro - come è successo con la Juve - è il primo ad allargarsi. Perché, si dice sempre, all’“io” bisogna sempre sostituire il “noi”. Che poi è l’unico modo, come sa bene e insegna Inzaghi, per crescere anche a livello individuale.