La culla di Pippo Inzaghi e il diluvio di Pechino Candido è ancora qui
L’ultima parola scritta da Candido Cannavò sulla Gazzetta dello Sport è stata «culla», in coda a un elogio di Pippo Inzaghi, che, nell’immaginario del giornalistascrittore, faceva gol già nella culla. Appunto. Era la mattina di giovedì 19 febbraio 2009. Il suo ultimo «Fatemi capire». Poi Candido è sceso in mensa, dove lo ha colto il malore che lo ha portato al Famedio, accanto a Peppino Meazza. La parola «culla», cioè l’inizio, a poche ore dalla fine, come a chiudere il cerchio, l’alfa e l’omega sulla pagina rosa, il colore di una vita. “Coerente” anche il malore a tavola, non alla scrivania, perché la Gazzetta era per lui molto più di un posto di lavoro, era una seconda famiglia, nei 19 anni di direzione (1983-2002) e oltre. Giovedì sono passati 15 anni dal suo addio. Intatto il vuoto di un’assenza, crescente il peso della nostalgia, emoziona ancora la misteriosa e puntuale logica di quel congedo. Nessuno meglio di Inzaghi avrebbe potuto chiudere la galleria delle rubriche di Cannavò, perché i due erano fratelli di cuore (in fiamme), gemelli di passione. Pochi giorni dopo la morte di Candido, Pippo segnò a Siena il 300° gol in carriera, si portò a casa il pallone e spiegò: «Mi sento un bambino. Non ce la faccio a chiamarlo lavoro, il calcio è la mia vita». Come lo erano, per Cannavò, la Rosea e il giornalismo. Poi Inzaghi aggiunse: «Sapere che Cannavò ha dedicato a me le sue ultime parole è un’emozione forte. Mi chiedo cosa avrebbe scritto per il mio trecentesimo gol... E poi la cosa della culla è vera. Io da piccolo mi sono spezzato il metatarso giocando a piedi nudi in mansarda con mio fratello, scalciavamo una pallottola di calze». Un anno prima di lasciarci, Candido era stato un bambino di 78 anni ai Giochi Olimpici di Pechino. Ogni mattina, al centro stampa, studiava il programma e si chiedeva: «Cosa andiamo a vedere oggi?». Gli brillavano gli occhi come a un bimbo che deve scegliere tra le attrazioni di Disneyland. Il pomeriggio del 14 agosto 2008 la scelta era obbligata: Chiara Cainero, ragazza friulana, si giocava la medaglia d’oro dello skeet in uno spareggio a tre con una tiratrice americana e una tedesca. Poco prima della gara, però, si scatenò il finimondo. Un temporale pazzesco che dipinse di nero il cielo e rovesciò un oceano sulla terra. I volontari traghettavano i giornalisti su piccole macchinette da golf. Era come travasare un mare con il cucchiaino. Le macchinette erano poche, i minuti che mancavano allo spareggio pure, i posti al coperto solo quattro e i giornalisti da trasportare troppi. Rischiavamo di perderci la medaglia di Chiara. Molti colleghi si arresero e rientrarono nel centro stampa per seguire lo spareggio in televisione, all’asciutto. Candido mi guardò e spalancò gli occhi: «Sediamoci lì dietro!».
“Lì dietro” voleva dire sul retro di una macchinetta, con le gambe a penzoloni, al di fuori del tettuccio che proteggeva dalla pioggia. Per almeno venti minuti ci siamo presi delle secchiate di acqua in testa, come neppure Noè il giorno del diluvio. Candido sorrideva felice come un bambino sfuggito alla mamma che sguazza in una pozzanghera, con i capelli appiccicati alle tempie. Perché un uomo di 78 anni, un giornalista famoso che aveva già alle spalle una carriera leggendaria, doveva beccarsi tutta quella pioggia? Perché, se per scrivere il suo articolo quotidiano, gli sarebbe bastato assistere dalla sala stampa, come avevano fatto molti colleghi più giovani? La risposta è semplice: perché si divertiva ancora un sacco e per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato all’emozione di una medaglia vissuta dal vivo. La bravissima Chiara lo premiò vincendo un oro che brillava come il sole nella pioggia. Un oro storico: il primo di una donna italiana nel tiro a volo olimpico. Inzaghi che rincorre un pallone apparentemente morto, al 90’ di Milan-Ajax 2-2, certo che Chivu scivolerà, perché scivola sempre, lo ha studiato, e così lui potrà piazzare la zampata vincente che porterà il Milan alla semifinale di Champions, vale Candido seduto sotto la pioggia, forte della sua volontà irriducibile. Quando Pippo smise di giocare, confidò: «Vorrei restare nel mio mondo, per trasmettere passione ai giovani. A volte i talenti si perdono perché manca la voglia». Lo sta facendo. Ecco il punto di contatto tra i due campioni: la voglia, l’entusiasmo, il cuore in fiamme per il proprio mestiere. Ricordare Cannavò 15 anni dopo, significa riproporre la lezione del miglior allenatore che ancora oggi un giovane giornalista possa avere, perché la rivoluzione digitale ha cambiato la buccia del mestiere, non la polpa. Andrà ancora celebrato quotidianamente come faceva e come insegnava lui, cantore di pretacci di strada, carcerati e diversamente abili: con passione, gioia, schiena dritta, forte senso etico, rispetto degli sconfitti e attenzione agli ultimi. Orfeo era innamorato di Euridice, quasi come Inzaghi del gol, tanto che scese fino all’inferno per riprendersela. A un giornalista può bastare sfidare la pioggia, ma ci deve mettere lo stesso amore. Ve la ricordate la rubrica di Candido, “Fatemi capire”? Stava in pagina in alto a sinistra, all’incrocio dei pali, dove mirano quelli come Pippo.
Quindici anni senza Cannavò. Vive il ricordo della sua lezione. Al centravanti del Milan dedicò le ultime parole