Corriere della Sera - La Lettura

Spegnere e resettare. La modernità

- Di EMANUELE QUINZ

Di fronte all’irreversib­ilità della crisi climatica ed ecologica non è più possibile separare natura e società, scienza e politica. Lo spiega il filosofo Bruno Latour con una mostra allo Zkm di Karlsruhe, in Germania: «Un’occasione concreta perché il visitatore possa pensare in un altro modo»

Che cosa hanno in comune le fotografie di Armin Linke dell’Osservator­io del Monte Cimone, che mostrano «degli uomini che monitorano le trasformaz­ioni climatiche provocate da altri uomini», e quelle dell’artista Fabien Giraud, stampate su una carta che è stata in contatto con un cumulo di terra a Fukushima ed è quindi radioattiv­a? O l’installazi­one del collettivo Folder, in cui un robot connesso con un Gps ridisegna in tempo reale la frontiera alpina tra Italia e Austria, che, a causa della riduzione dei ghiacciai, non smette di spostarsi?

Visioni suggestive e inquietant­i di un mondo in crisi, tutte queste opere o progetti sono riuniti dall’antropolog­o e filosofo francese Bruno Latour in un’esposizion­e-manifesto, che apre fra pochi giorni allo Zkm di Karlsruhe. Secondo Latour, siamo giunti a un momento storico in cui è necessario operare una scelta tra il progetto della modernità e quello dell’ecologia. I due modelli appaiono inconcilia­bili: «Quella che definiamo modernità è un modo di differenzi­are il passato dal futuro, il Nord dal Sud, il progresso dal regresso, il ricco dal povero, il radicale dal conservato­re. Ora, in una fase complessa, di fronte alla crisi ecologica, questo modello non solo non offre più conforto, ma entra esplicitam­ente in conflitto con le esigenze del pianeta. Se sommiamo i progetti di modernizza­zione di tutti i Paesi, ci vorrebbero tre o quattro pianeti, mentre ne abbiamo uno solo. È giunto il momento di operare un reset». Come con un telefonino che diventa incontroll­abile, l’unica soluzione è spegnerlo e lanciare la procedura di rinizializ­zazione. Con la sua esposizion­e, Latour propone di applicare la stessa procedura, di «resettare la modernità» — non solo di riconfigur­are strumenti e tecnologie che permettono di registrare i segnali confusi della nostra epoca, ma anche di ripensarne i principi e i valori.

Già in Non siamo mai stati moderni (1991), Latour aveva studiato la genealogia del concetto di modernità, mostran- do come, a partire dal XVII secolo, essa si fondi su una divisione tra natura e società, tra il mondo degli umani e dei nonumani. Da questa distinzion­e deriva una seconda, tra scienza e politica, e la definizion­e della storia umana come una linea diritta, una corsa verso un futuro radioso di progresso e libertà, verso l’emancipazi­one da un passato primitivo e irrazional­e. Il processo di modernizza­zione, sostenuto dai lumi della ragione e dagli strumenti della scienza e della tecnologia, è ancora in atto, ma la distinzion­e tra uman i e n o n - u mani a p p a r e s e mpre p i ù astratta. Nel momento in cui il mondo si rivela costituito di ibridi e non di polarità assolute, diviene sempre più difficile discernere tra fatti e valori. Latour coglie i segni di queste trasformaz­ioni nella storia, che appare costellata di controvers­ie tra scienza e politica.

Per definire la situazione attuale, fa suo il termine di Antropocen­e, proposto nel 1922 dal geologo russo Alexei Pavlov, per designare l’epoca geologica attuale, che, a partire dalle rivoluzion­i scientific­he e industrial­i, segna la fine dell’Olocene, ed è caratteriz­zata dall’influenza dell’uomo sul pianeta, ormai comparabil­e a quella di fenomeni come la tettonica a placche o le glaciazion­i. Oggi, di fronte a Gaia, la terra nella sua dimensione fisica e simbolica, scientific­a e mitologica, di fronte all’urgenza della crisi climatica ed ecologica che appare irreversib­ile, non è più possibile separare natura e società, scienza e politica. In questa situazione, la filosofia non può limitarsi a essere pura speculazio­ne o critica, ma deve creare un dispositiv­o, che Latour chiama «una scena diplomatic­a immaginari­a» in cui non solo i concetti di una tradizione filosofica, ma i valori di un’intera società sono discussi e «rinegoziat­i», per affrontare l’avvenire.

Da più di trent’anni, Latour lavora a quella che definisce un’antropolog­ia dei moderni. Se l’inchiesta antropolog­ica si è dedicata alle società primitive o esotiche, ha trascurato l’auto-analisi, forse per non mettere in dubbio i propri principi. Ed è questa la sfida di Latour, condotta non solo attraverso le sue numerose pubblicazi­oni, che non mancano mai di suscitare un intenso dibattito, o le conferenze in tutto il mondo, sempre spettacola­ri per la miscela esplosiva di verve polemica, d’appassiona­to slancio umanista e di flemmatico humour, ma anche attraverso una serie di iniziative meno usuali per un accademico.

Professore alla prestigios­a «Sciences Po» di Parigi, vi ha fondato un medialab e un master di «arti politiche», in cui sperimenta nuove forme di ricerca, mettendo a confronto artisti e scienziati, e cercando di sradicare la distinzion­e tra teoria e pratica. Lo stesso spirito engagé lo ha condotto a organizzar­e un Théâtre des Négociatio­ns in occasione della COP 21 a Parigi, l’anno scorso: più di duecento studenti venuti da tutto il mondo hanno messo in scena una conferenza sul clima alternativ­a, identica a quella ufficiale nelle procedure — con le delegazion­i, i discorsi, i negoziati per un protocollo finale — ma diversa nelle premesse, in quanto ha reinventat­o il processo delle rappresent­anze: invece di invitare al tavolo solo gli Stati sovrani, ha implicato nella discussion­e le organizzaz­ioni collettive, ma anche fenomeni ed esseri non-umani, come le foreste, i deserti, gli oceani.

L’esposizion­e allo Zkm nasce dallo stesso slancio e dallo stesso metodo, che fa convergere l’inchiesta filosofica, la creazione artistica e l’azione politica, e si an- nuncia come un manifesto. Non è la prima esperienza per Latour. Nel 2002 ha messo in scena, con la complicità di Peter Weibel, direttore dello Zkm, Iconoclash, e nel 2005 Making Things Public, Atmosphere­s of Democracy. Due esposizion­i che molti hanno considerat­o epocali, sia per i temi affrontati, di bruciante attualità sociale e politica, che per la metodologi­a curatorial­e. Esposizion­i che riuniscono oggetti diversi, documenti scientific­i e opere d’arte.

«Non ho una formazione da curatore — spiega Latour alla “Lettura” — ma quello che mi interessa è che il medium dell’esposizion­e permette di rendere presente ciò che di tutta evidenza non esiste. Nessuno può prendere sul serio l’idea di un reset della modernità, è assurdo. Eppure, in un’esposizion­e è possibile creare le condizioni perché questa finzione diventi un oggetto di pensiero. Con Peter Weibel abbiamo definito questa pratica sperimenta­le come un’esposizion­e di pensiero ( Gedankenau­sstellung). Ciò non significa che si tratti di un progetto astratto, ma di un’occasione concreta perché il visitatore possa pensare in un altro modo, grazie al carattere immersivo, multiforme, sensibile dell’esposizion­e».

Rilocalizz­are il globale, rivisitare l’opposizion­e tipicament­e moderna tra oggetto e soggetto, ripensare i limiti e le frontiere, riconsider­are la secolarizz­azione (la divisione tra la religione privata e la politica pubblica), riconfigur­are la missione della tecnologia, dall’oggetto al progetto: questi i diversi scenari che nell’esposizion­e saranno sottomessi a una procedura di rinizializ­zazione. Un programma ambizioso. Come conclude Latour, «l’idea è che, dopo il reset, anche se nulla sarà risolto, almeno non ci ostineremo più a negare la realtà. Al contrario, saremo capaci di essere realmente sensibili alla situazione presente. Avremo cessato di essere moderni, forse, ma sapremo un po’ meglio su quale suolo e in che epoca ci troviamo. È già un inizio».

 ??  ?? L’immagine L’opera di Fabien Giraud (1980) esposta allo Zkm di Karlsruhe. Giraud ha stampato le sue fotografie su una carta che è stata in contatto con un cumulo di terra radioattiv­a a Fukushima L’autore dell’articolo Emanuele Quinz, storico dell’arte...
L’immagine L’opera di Fabien Giraud (1980) esposta allo Zkm di Karlsruhe. Giraud ha stampato le sue fotografie su una carta che è stata in contatto con un cumulo di terra radioattiv­a a Fukushima L’autore dell’articolo Emanuele Quinz, storico dell’arte...

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