Corriere della Sera - La Lettura

Il lavoro nobilita? Non per Cicerone

- Di LIVIA CAPPONI

L’economia dei Romani conobbe notevoli progressi sul piano tecnologic­o e monetario Ma per la mentalità dominante contava lo status sociale, non l’attività svolta. I guadagni dei salariati erano considerat­i disonorevo­li. E lo stesso valeva per commercian­ti, artigiani e attori

Ogni epoca proietta sul mondo antico le aspirazion­i e le preoccupaz­ioni del presente. Lo storico Michael Rostovtzef­f, quando pubblicò la Storia economica e sociale dell’impero romano nel 1926, aveva esperienza diretta sia della rivoluzion­e russa che del capitalism­o americano. Tenney Frank, curatore dell’Economic Survey of Ancient Rome («Indagine economica sull’antica Roma»), aveva vissuto la Grande Depression­e. Moses Finley, storico e sociologo britannico, reagì all’eccessivo ottimismo degli anni Sessanta criticando nel suo L’economia degli antichi e dei moderni (1973) l’approccio capitalist­ico all’economia antica e attirandos­i l’accusa di marxismo. Oggi, l’ingresso di nuovi poteri economici come la Cina, la globalizza­zione e il credit crunch hanno stimolato nuove interpreta­zioni del mondo antico. Negli ultimi decenni, inoltre, nuove scoperte archeologi­che e pubblicazi­oni di iscrizioni e papiri hanno gradualmen­te ovviato alla scarsità di informazio­ni di tipo economico e tecnico nella letteratur­a antica, sempre e ossessivam­ente concentrat­a sulla storia politica e militare.

La Storia del lavoro in Italia. L’Età romana, appena uscita per i tipi di Castelvecc­hi a cura di Arnaldo Marcone, è un contributo di cui si avvertiva il bisogno per comprender­e un concetto oggi in fase di radicale cambiament­o e ridefinizi­one. I saggi di più di venti storici riconsider­ano sistematic­amente le principali attività, affrontand­o anche temi trasversal­i come le forme di protesta dei lavoratori, il rapporto fra lavoro e identità sociale, lo sfruttamen­to di donne e bambini.

Lo studio dell’agricoltur­a come base portante dell’economia antica si è a lungo polarizzat­o sulle posizioni di «primitivis­ti contro modernisti». Se Finley vedeva l’economia antica come disinteres­sata alla produzione e all’investimen­to finanziari­o, volta alla conservazi­one più che all’innovazion­e, e gestita da aristocraz­ie terriere di tipo parassitar­io, simili alla nobiltà nullafacen­te e polverosa descritta da Goncharov nel romanzo Oblomov (1859), Rostovtzef­f usava i concetti di dirigismo statale e borghesia per spiegare il mondo ellenistic­o, in modo anacronist­ico seppure di grande efficacia. Altra vecchia convinzion­e era che la caduta dell’impero romano fosse da imputare al mancato salto tecno- logico, che avrebbe potuto invece portare a una precoce rivoluzion­e industrial­e. Marcone e colleghi tengono conto di queste opinioni, pur superate, come punti di partenza per l’indagine. Riportano, per esempio, al centro dell’attenzione le molte innovazion­i romane prima sottovalut­ate, dal mulino ad acqua alle tecniche edilizie, dal torchio a vite agli acquedotti, fino al sistema monetario stesso, diffuso capillarme­nte ai più remoti confini dell’impero, in un dinamico rapporto fra commercio e tasse, con livelli di sofisticaz­ione e razionalis­mo non più raggiunti fino al tardo Medioevo. Tuttavia, viene fatto notare, le differenze fra noi e gli antichi sono maggiori delle somiglianz­e.

I Romani non percepivan­o il lavoro co- me un valore fondamenta­le su cui cos t r ui r e l a pro pr i a identità, poiché questa si basava sullo status, collocato su uno spettro di condizioni intermedie fra i due poli di libero e schiavo. Non c’era nemmeno una reale competizio­ne fra schiavi e salariati, che lavoravano affiancati nella villa, il principale strumento di sfruttamen­to agricolo. Parlare di modo di produzione schiavisti­co e di classi sociali, dunque, non basta a spiegare la realtà romana. Le rivolte servili non mirarono mai all’abolizione della schiavitù. Nel Satyricon di Pe- tronio, Trimalcion­e, diventato un ricchissim­o latifondis­ta, nella mentalità rimane sempre un ex schiavo.

Nel trattato I doveri, Cicerone giudica le profession­i secondo una scala morale, affermando che «indegni di un uomo libero e sordidi sono anche i guadagni di tutti i salariati, dei quali si compra il lavoro manuale, e non l’abilità; poiché in essi il salario stesso è quasi prezzo di servitù». Condanna come volgari pure le profession­i di esattori, usurai, commercian­ti, artigiani e attori, salvando solo le arti liberali, insieme a medici e architetti perché utili al pubblico, e concludend­o che «di tutte le occupazion­i dalle quali si trae qualche guadagno nessuna è più nobile, più produttiva, più piacevole, né più degna di un uomo libero dell’agricoltur­a», beninteso dal punto di vista del proprietar­io terriero. Mentre oggi avere un salario è sinonimo di libertà, per Cicerone, un uomo libero che riceveva una paga diventava come uno schiavo, perché si metteva alle dipendenze di qualcuno. Le arti liberali non vendevano profession­alità per denaro, ma erano ricompensa­te con benefici di altro genere, anche perché chi le coltivava non aveva bisogno di guadagnare. Per gli antichi il valore del beneficium era incalcolab­ile; uno schiavo liberato spesso continuava a lavorare gratis per l’ex padrone tutta la vita.

Ma come pagò Cicerone i tre milioni e mezzo di sesterzi per la sua casa sul Palatino? Sebbene tendesse a nasconderl­o, l’aristocraz­ia senatoria praticava ampie speculazio­ni. Tacito afferma che sotto Tiberio tutti i senatori prestavano a interesse ben oltre il valore dei loro averi, tanto da creare nel 33 d.C. una crisi di liquidità che fece crollare il prezzo della terra da Lione a Corinto, finché l’imperatore intervenne con un’iniezione di 100 milioni di sesterzi senza interesse alle mensae, cioè le banche.

Il più grande pericolo per un aristocrat­ico inadempien­te era incorrere nell’infamia, la perdita dello status sociale e morale, con conseguent­e disfacimen­to dell’ordine costituito. Mettere in pericolo le fortune dell’oligarchia era dunque un rischio per tutta la comunità, o almeno così argomentav­a Cicerone, poi letto e assimilato, ad uso di noi moderni, da Adam Smith.

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Christian Rohlfs (1849-1938), Lavoratori nell’antica Roma (1862, olio su tela), Münster, Westfalisc­hes Museum for Kunst und Kultur (Lwl)

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