Corriere della Sera - La Lettura
Toni Servillo parla napoletano Tullio Pericoli disegna napoletano
In un volumetto l’artista improvvisa 37 «ritratti sonori» giocando con il volto e l’espressività dell’attore. E sovrappone alla propria matita i versi di una poesia di Mimmo Borrelli
ne scenica. Sta invece nell’aver realizzato una galleria di «ritratti sonori» anche senza voce e senza suono. Nell’aver allestito una vivace sequenza di «istantanee» frutto però di una creazione lenta e laboriosa. Nell’aver diretto una recita appassionante senza personaggi. Nell’aver mostrato un volto verace — quello di Napoli? Di Servillo? Di Borrelli? — dietro una sequela di maschere.
Sono i trucchi, i giochi, le magie, le aporie cui Pericoli, artista quanto mai avvertito, e anzi curioso e stupito riguardo alle finezze del proprio mestiere, non è nuovo. Ancora, presentando questo atto unico napoletano, ci parla di quel complesso sistema di variabili che è il volto umano, dell’equazione minata da mille incognite che è il suo ritratto, e dell’unica soluzione esatta che è il disegno riuscito.
Rispetto alla sua imponente raccolta de I ritratti di poeti e scrittori (Adelphi, 2002) — a proposito dei quali però Pericoli insinuava (nel breve saggio L’anima del volto, Bompiani, 2005) «l’opera letteraria ti cambia la faccia» — la variabile aggiuntiva di questi ritratti «sonori» è proprio il suono del verso poetico, coinvolto in maniera decisiva nella composizione della figura senza che la carta possa realmente restituirlo. È la voce della poesia che si vuole rappresentare. È la parola pronunciata in napoletano, colta nella sua forma — specie da lettori digiuni della parlata partenopea — più ancora che nel suo significato, e riprodotta da Pericoli nella sua grafia. Come? La parola è letteralmente inscritta tra i connotati di Servillo, come complemento e anzi cuore della sua espressione. Ricorrendo a una tecnica di sovrapposizioni e stratificazioni dei vari schizzi di un volto che il pittore coltiva da sempre e ben descrive nel suo saggio sopraccitato sulla fisiognomica del ritratto, Pericoli, nel Piccolo teatro ha provato a leggere in trasparenza, sulla faccia dell’attore in scena, anche la forma grafica della battute recitate. Le ha trascritte fisicamente su delle veline distese sul disegno.
Alla fine però le veline sono scomparse — nel volume ne sono rimaste solo quattro — e i versi feroci, strazianti, dolenti di Napule sono andati perfettamente a confondersi con il ghigno, il gesto, il grido di Servillo: con il corpo vivo del suo ritratto. E adesso, a lavoro compiuto, come Pericoli sognava di fare raccontando La storia della mia matita (edizioni Henry Beyle, 2015), «di quei segni potremmo addirittura sentire il suono e il respiro».