Corriere della Sera - La Lettura

IL PIRIPÙ SI FA CAPIRE IN TUTTO IL MONDO

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Tararì tararera, comincia questa storia: una nuova tiritera? No: una lingua inventata per raggiunger­e chi ancora non sa leggere, e spesso neanche parlare ( eeepppaaa!). C’era una volta — e oggi ancor di più — la lingua Piripù, creata da Emanuela Bussolati «per il puro piacere di raccontare storie ai Piripù Bibi», come si spiega sulla copertina dei tre volumi pubblicati finora da Carthusia (il primo, intitolato proprio Tararì tararera, ha vinto nel 2010 il Super premio Andersen - Libro dell’anno; gli altri due sono Badabùm e Rulba rulba!).

Una lingua infantile, senza paradigmi e coniugazio­ni, senza aggettivi e preposizio­ni, senza soffitto e senza cucina (un po’ come la casa cantata da Sergio Endrigo). Una sequenza di suoni evocativi che, filtrati dalla voce vivace di un adulto, impastano di sorprese ed emozioni le avventure del piccolo Piripù Bibi, fino alle immancabil­i coccole del lieto fine ( Ciuppi plin plin!). L’unica grammatica è quella della fantasia. Parole e frasi, disegnate come figure, dialogano con le illustrazi­oni in tante forme diverse. Saltano sui rami della foresta, si tuffano nei fiumi, fuggono di gran furia ( Rulba rulba rulba!); volano nel vento fino alle orecchie attente di Piripù Pà e Piripù Mà ( Serè ciana … Mè Mimìa …), superano i confini tra popoli e Paesi.

Perché il Piripù è un archetipic­o grammelot che, partendo dall’italiano, è riuscito a diventare una lingua universale. Un esperanto divertente per tutti i bambini del mondo, come testimonia­no le tante edizioni internazio­nali ( Cufù là? Un titiritril­lo!). È proprio la sua intraducib­ilità, d’altronde, a farne una perfetta lingua degli affetti: dalla lettura al lessico famigliare, per dare al grumo indicibile dei sentimenti una prima veste verbale.

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