Corriere della Sera - La Lettura

Il capo-ufficio sarà un robot

Pedro Domingos disegna il futuro dell’intelligen­za artificial­e «Tranquilli però, le macchine non avranno il sopravvent­o»

- Da New York MASSIMO GAGGI

Parla l’autore de «L’Algoritmo Definitivo». «La tecnologia non è una minaccia»

No n t e me t e : v i v r e mo i n u n mondo sempre più dominato dalle macchine, ma i robot non prenderann­o il sopravvent­o sull’uomo. Dovremo, però, abituarci all’idea di lavorare avendo come capo un computer. O, meglio, le nostre azioni saranno guidate da algoritmi. Parola di Pedro Domingos, computer scientist della Washington University di Seattle in dialogo continuo con giganti digitali come Amazon, Microsoft, Google e cofondator­e della Machine learning society. Domingos, un portoghese che ha studiato e sviluppato la sua attività di ricerca negli Stati Uniti, guarda con grande ottimismo alla diffusione della tecnologia: «Ci sono problemi da risolvere, ma nel complesso ci aiuta a vivere vite più lunghe, più felici e più produttive». Lo scienziato è convinto che prima o poi il genere umano riuscirà a fare una sorta di salto di qualità nel percorso della conoscenza, grazie allo sviluppo di algoritmi sempre più potenti e penetranti, fino ad arrivare a quello che definisce L’Algoritmo Definitivo in un libro con questo titolo in libreria dal 21 aprile in Italia per Bollati Boringhier­i ( Master Algorithm nella versione inglese).

Pensa che il genere umano sia pronto a immergersi in un mondo quasi com- pletamente governato dalle macchine?

«Basta non viverla come una minaccia incombente sul futuro, ma come una realtà che è già parte integrante delle nostre vite: le macchine che imparano da sole sono ormai ovunque. E non sono minacciose: sono una presenza che ci aiuta o comunque influenza quasi tutto ciò che facciamo. Quando andiamo al supermerca­to scegliamo prodotti la cui disposizio­ne sugli scaffali è stata decisa da un algoritmo che tiene conto delle abitudini di consumo dei clienti. Alla cassa paghiamo con una carta di credito che la banca ha probabilme­nte deciso di darci, consideran­doci debitori affidabili, grazie all’analisi di una di queste macchine capaci di imparare dall’esperienza. Altre macchine simili selezionan­o le domande degli studenti che cercano di entrare nelle migliori università, esaminano le richieste d’impiego, indicano rose dei candidati più promettent­i per un certo lavoro. E, oltre alle assunzioni, gli algoritmi spesso governano anche le promozioni e gli aumenti di stipendio. Può non piacere, ma forse è meglio che avere un capo lunatico o prepotente. L’elenco può essere infinito: dalla Nsa, che usa algoritmi per individuar­e i sospetti terroristi da tenere sotto controllo, ad Amazon, che si serve di una tecnologia simile per suggerire a ogni cliente i libri più

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ai suoi interessi e i suoi gusti. Netflix propone serie televisive sulla base delle preferenze dei suoi abbonati, Pandora sceglie nello stesso modo la musica da proporre a ogni utente. E ancora: il machine learning è alla base dell’auto che si guida da sola, dell’eliminazio­ne dello spam dai nostri computer, di una serie infinita di servizi, da quelli di trasporto all’e-commerce, fino al dating, cioè la ricerca dell’anima gemella. Gli smartphone che abbiamo in tasca sono già oggi zeppi di algoritmi che ci studiano e imparano dai nostri comportame­nti».

Curioso che di tutto questo non si parli affatto nella campagna elettorale Usa. Forse perché i candidati temono di spaventare elettori già tutt’altro che soddisfatt­i per come vanno le cose nel Paese. C’è chi farebbe volentieri un passo indietro: teme le macchine, la loro concorrenz­a sul mercato del lavoro.

«Sì, è una paura diffusa, ma secondo me sono timori in larga misura infondati. Alla fine la disoccupaz­ione Usa è ai minimi. Si diceva che il bancomat avrebbe condannato a morte il bancario. Invece ce ne sono più di prima, solo che fanno altro. Del resto, tornare indietro è problemati­co: chi lo fa si condanna a vivere nel XXI secolo con le regole e le conoscenze del XX. Bisogna saper affrontare la realtà. Se ti trovi davanti un cavallo non è che ti metti a correre pensando di poter essere più veloce di lui, cerchi di cavalcarlo».

Bella metafora, ma un anziano difficilme­nte monterà a cavallo: la tecnologia lo intimorisc­e. Verrebbe da dire che questo non è un mondo per vecchi. Ma poi scopri che molte delle tecnologie più innovative delle «learning machine» verranno utilizzate in primo luogo proprio dagli anziani. Avranno bisogno anche loro di un’istruzione digitale?

«Quello che dice sulla tecnologia per gli anziani è giusto: l’auto che si guida da sola sarà un’opzione per molti di noi, ma una necessità per chi, benché invecchiat­o, è ancora attivo. Ha bisogno di spostarsi ma il medico gli ha negato la patente per problemi di vista, udito o altro: ci pensa l’auto-robot. Un’intera branca della robotica, poi, è dedicata all’assistenza degli anziani e dei malati non più autonomi. In Giappone questi infermieri-robot sono già diffusi. Ci sarà anche altro come l’esoschelet­ro: una struttura cibernetic­a capace di sostenere e aiutare i movimenti di chi è indebolito. Non è vero che quello degli algoritmi non è un mondo per vecchi. Né credo si possa imporre un corso d’informatic­a a un ottantenne: è la tecnologia che diventa più intuitiva e facile da usare, ad esempio coi comandi dati a voce».

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