Corriere della Sera - La Lettura
Religione e delitto alla cerimonia del tè
Tradotto per la prima volta in italiano il libro del 1981 di Yasushi Inoue, una produzione vasta ma che nel nostro Paese è apparsa in modo esiguo nell’arco di cinquant’anni prestandosi a giudizi molto differenti. Qui una cosa è chiara: sembra un romanzo storico ma non lo è
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Yasushi Inoue visse tra il 1907 e il 1991. Tradotti vi sono, tra i suoi innumerevoli, sei libri. Il primo apparve nel 1964 con il titolo La montagna Hira. Conteneva tre racconti: quello che dà il titolo al libro (è il suo terzo, ed è del 1950); La lotta dei tori (è il suo primo in assoluto, del 1947) e Il fucile da caccia, del 1949. Questi racconti furono poi ristampati separatamente, ma Inoue, a differenza di Dazai, di Tanizaki, di Kawabata e di Mishima non ottenne grande considerazione. Voglio qui citare un giudizio di Cesare Garboli, espresso nel 2003, che riassume il senso della ricezione del 1964: « Il fucile da caccia è un racconto d’impianto e di gusto occidentali, costruito con abilità un po’ prevedibile. Una segreta storia d’amore di vago stile britannico, soi-disante (cosiddetta, ndr) maledetta. Un adulterio ci viene rivelato da un incastro di retrospettive confessioni epistolari. Costumi, scenari, perfino le psicologie possono essere ricondotte senza sforzo a fonti e modelli europei».
La successiva riapparizione di Inoue fa pensare all’attuale successo di scrittori americani di seconda fila, da Richard Yates a John Williams, da James Salter a Kent Haruf. Anche Vita di un falsario, tradotto nel 1995, contiene tre racconti. Vita di un falsario è del 1951, Obasuté del 1955 e Plenilunio del 1958. E tre racconti contiene Amore (pubblicato nel 2006): Giardino di rocce del 1950, Anniversario di un matrimonio del 1951 e La morte, l’amore, le onde dello stesso anno. Fin qui siano nell’Inoue descritto da Garboli. C’è anche un romanzo, apparso in italiano nel 2004, La corda spezzata (lo pubblicò l’editore Vivalda in una collana dedicata alla montagna). La corda spezzata è del 1956, non l’ho letto. Quel che ne so lo ricavo da un opuscolo dell’Istituto giapponese di cultura, che nel 1995 programmò una retrospettiva di cinque film tratti da opere di Inoue. Il film, di Yasuzo Masumura, è del 1958 ed è intitolato Il precipizio. Narra della morte di Kosaka, provocata dalla rottura di una corda «forte e affidabile» durante la scalata del monte Maehodaka all’alba di un Capodanno. Suicidio o omicidio? (Inoue era stato uno scalatore).
Accanto all’opinione di Garboli mi pia- ce però rammentare quanto scrisse Graziella Pulce: «Gli enunciati, formulati secondo il principio Iki del trattenere in compostezza, si aprono a ventaglio nel lettore, che si trova sollecitato a prendere atto di una infinita serie di relazioni che le sequenze verbali vanno a intrecciare. La partita si gioca tutta sulla capacità del narratore di trasformare l’infinita mutevolezza del divenire in qualcosa di nonpiù-riducibile, nell’esemplarità di un momento essenziale, nella forma di suprema, egoistica sintesi che la vita inventa per conservare e perpetuare se stessa. E questo non è semplicemente il ricordo, soggetto alle insidie della soggettività, degli interessi individuali e del capriccio dell’esistente, ma il memorabile, che lo scrittore è chiamato a individuare e disporre».
Questa, di Graziella Pulce, è un’osservazione cruciale, spinge più in là quanto da Garboli scritto. Ma ancora non è evidente in Ricordi di mia madre del 1975 e tradotto per la prima volta dieci anni dopo. Anche il libro autobiografico è composto da tre racconti, scritti a distanza di cinque anni l’uno dall’altro: Sotto i fiori, Raggi di luna e Sotto la neve. Nei tre testi non c’è una vera progressione. Inoue registra con una certa pedanteria il decadimento fisico (il corpo della madre si va alleggerendo, si fa sempre più leggero, diventa fragile come dovesse andare in frantumi da un momento all’altro) e il decadimento mentale (i ricordi si rarefanno, prima c’era quello di un ragazzino conosciuto nell’infanzia e nell’adolescenza, poi scompaiono i ricordi del marito e dei familiari, infine quelli di ogni momento spiacevole: non c’è più che il pensiero della neve, nella mente della madre di Inoue non c’è che neve, gelo, ghiaccio — un tema per altro ricorrente. In quasi tutti i racconti dello scrittore giapponese l’aggettivo «gelido» torna a indicare qualcosa che va ben oltre la temperatura e lo stesso stato d’animo).
Ma nel 1975, quando Inoue pubblicò Ricordi di mia madre, si captava qualcosa di diverso da prima — per quello che possiamo supporre avendo a disposizione un materiale relativamente esiguo ri- spetto, l’ho detto, a una produzione molto più vasta. Questo qualcosa di diverso è proprio la pedanteria, ovvero la precisione, oserei dire lo scrupolo. Direbbe (dice) Pulce: «La rinuncia all’ambizione di fare dello scrittore colui che sottomette il mondo. Arte del togliere e del segmentare per ricondurre a unità più piccole da levigare, come se a ciascuna di esse spettasse il compito di rappresentare in modo inequivocabile e definitivo».
Obiettivamente, Ricordi di mia madre è un libro diverso dai precedenti — non solo perché autobiografico. È come se in Inoue fosse subentrata la vergogna, se si vuole anch’essa tutta europea, tutta francese, di inventare, di costruire trame o racconti morali privi di una moralità evidente o nascosta. Rammento che nel 1960 Inoue era stato a Roma per l’Olimpiade e negli anni successivi aveva a lungo viaggiato in una quantità di Paesi europei dell’Ovest e dell’Est. Forse sto solo fantasticando. Ma Morte di un maestro del tè del 1981 — adesso in libreria — è un romanzo, se così vogliamo continuare a chiamarlo, non diverso, ma opposto ai precedenti. Esso è prima di tutto un libro difficile, di quasi impossibile lettura. Non fosse che per il tema, un non-romanzo di molto speciale natura, ossia di natura orientale, giapponese — non già francese, italiana o tedesca. In essenza, per la storia che racconta (o non racconta, che suppone) — la storia di un monaco e di una morte mistica — se questa espressione ha un senso. Ce la racconta Honkakubo del tempio di Miidera. Costui riceve la visita di Okano Kosetsuai, il quale gli consegna un testo di Yamanoue Soji, suo maestro. Il titolo del testo è L’essenza nascosta del tè o La strada segreta del tè. Soji era discepolo di Rikyu, maestro di Honkakubo. Noi lettori occidentali potremmo leggerla come storia del rapporto tra il maestro e l’allievo. Nel film che ne trasse Kei Kumai nel 1989 (e che vedemmo in quella retrospettiva dell’Istituto giapponese di cultura di Roma), apertura e conclusione sembrano sottolineare questo aspetto, ricavato dal sogno finale di Honkakubo: Rikyu si allontana su una strada pietrosa, cade la neve, la neve si tramuta in chicchi di grandine, Honkakubo segue a distanza il maestro, il maestro si volta e gli suggerisce, anzi ordina, di non seguirlo, poiché ogni chajin, ossia cultore e maestro dell’arte del tè, ha la sua strada. Ma se questo è un tema cruciale, ve n’è un altro ben più drammatico: il rapporto tra Rikyu e il suo padrone (siamo tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento). Costui, Hideyoshi, nessuno sa il perché, ha ordinato a Rikyu di andare in esilio: laggiù Rikyu farà seppuku, si suiciderà, e una «lunga serie di possibili motivi e semplici dicerie circolano ancor oggi sulla morte del maestro». La più verisimile: «La sua vicinanza politica alla fazione moderata riguardo all’invasione della penisola coreana».
Ma se c’è una cosa sicura è che Morte di un maestro del tè non è un romanzo storico, nonostante tutto lo neghi. Inoue ci sta parlando di un conflitto, ovviamente nei termini della sua cultura, tra potere temporale (benché anche lui devoto alla cerimonia del tè, Hideyoshi è essenzialmente un guerriero, un samurai) e potere spirituale. Di fatto la cerimonia del tè, con tutti i suoi (per noi) snervanti feticismi, è una pratica religiosa. Ciò che semmai ci colpisce è quanto, a differenza dello scrittore che sembra aver rinunciato al controllo assoluto (alla totalità), il maestro Rikyu sia tutt’altro che un maestro zen. Egli si uccide perché, ubbidendo al suo padrone, vuole su di lui prevalere. Sì, il nulla non annulla nulla, solo la morte annienta tutto — ci viene più volte ripet u t o . Ma l ’ u l t i mo i n t e r l o c u t o r e d i Honkakubo, il maestro Uraku, un giorno chiede: «Tra tutte le sedute svolte dal maestro Rikyu, quale fu la migliore? Sapreste dirmi quale considerate il suo capolavoro?». Come potremmo, noi occidentali, non pensare di trovarci di fronte all’idea di un rito (di un atto) religioso come performance? Come potrebbe non tornarci in mente lo spettacolare suicidio di Yukio Mishima del 1970?