Corriere della Sera - La Lettura

Rivalutare la ascoltando Carl Schmitt

Pluralità

- Di MAURO BONAZZI

Ordine internazio­nale

La pubblicazi­one dei Quaderni neri ha riportato al centro delle discussion­i l’opportunit­à di leggere autori il cui legame con il nazismo è ormai un fatto assodato. Vale per Martin Heidegger e vale per Carl Schmitt, che a più riprese, e spesso in modo patetico (neppure ai gerarchi sfuggì il suo opportunis­mo), cercò di «assumere intellettu­almente il comando del movimento nazista» (Jaspers). Il giudizio sulla persona, in entrambi i casi, non può che essere negativo, ma in fondo importa poco. Ciò che conta sono le idee: perché continuare a occuparsi delle teorie di questi cattivi maestri?

Il paradosso di Schmitt, spiega JeanFranço­is Kervégan nel libro Che fare di Carl Schmitt? (traduzione di Francesco Mancuso, Laterza, pp. 238, € 24), è che molte delle sue idee, pur compromess­e con il regime nazista, offrono spunti di riflession­e per affrontare i nostri problemi da angolature interessan­ti. Così è per la teoria dei «grandi spazi». Visto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine (e questa è forse l’osservazio­ne più attuale: la crisi dello Stato nazione), è auspicabil­e una divisione del mondo in zone d’influenza controllat­e da grandi potenze. Alla fine degli anni Trenta questa teoria serviva a giustifica­re l’espansioni­smo hitleriano. Ma nel dopoguerra non è stata proprio la divisione in due grandi blocchi la garanzia di un cinquanten­nio di relativa stabilità? L’obiettivo, oggi, è ricostruir­e un nuovo ordine prescinden­do da queste divisioni potenzialm­ente conflittua­li, nel nome della pace e di un diritto universale condiviso. Un’idea stupenda, ma per Schmitt impossibil­e, perché non esiste un diritto puro, autonomo o neutrale. Il diritto trova il suo fondamento in un atto politico, e la politica presuppone sempre il perseguime­nto del proprio interesse contro quello degli altri: implica dunque una pluralità di agenti e il rischio del conflitto. Per questo la guerra ci sarà sempre e non ha senso stigmatizz­arla: è parte della lotta politica. Il problema è piuttosto come contenerla e regolarla, lasciando cadere le distinzion­i morali tra buoni e cattivi: non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un «giusto», vale a dire delle regole rispettate, nella guerra. Così successe nell’età moderna ed è questo ciò a cui bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una «guerra civile mondiale» senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità universali insindacab­ili. Che queste teorie fossero sfruttate in difesa della potenza nazista, impegnata in quegli stessi anni in una guerra di sterminio a Est, ha dell’incredibil­e. Ma come negare che queste analisi potrebbero servire a inquadrare i problemi di una globalizza­zione sempre più fuori controllo? E magari potrebbero aiutare a definire un ruolo possibile per l’Europa sullo scenario mondiale.

Una delle tendenze più vistose dei nostri tempi è stato il tentativo di neutralizz­are la dimensione politica delle relazioni umane, nella convinzion­e che il progresso economico o scientific­o avrebbe offerto soluzioni nuove e definitive. Le proposte di Schmitt non sempre, anzi quasi mai, sono del tutto condivisib­ili. Ma le sue analisi ci ricordano che il «politico» è parte integrante della condizione umana, e su questo è difficile dargli torto. Lo spiega bene Kervégan: «L’unificazio­ne tecnica del mondo è un fatto acclarato: ma derivarne la necessità di una unificazio­ne politica, o piuttosto di una unificazio­ne nell’oltrepassa­mento del politico, del conflitto, del negativo, è una illusione», che rischia di lasciarci senza strumenti per comprender­e ed eventualme­nte intervenir­e sulla realtà che ci circonda — una realtà che è e rimane plurale. Nei giorni della catastrofe siriana viene da pensare che forse non è ancora arrivato il momento di sbarazzars­i di Schmitt.

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