Corriere della Sera - La Lettura

Non possiamo rassegnarc­i a questo mondo di ingiustizi­e

Arturo Sosa Abascal è stato da poco eletto trentesimo successore di Sant’Ignazio di Loyola a capo della Compagnia di Gesù, il cosiddetto Papa nero, primo non europeo, primo latino-americano, primo mentre regna un pontefice gesuita. Venezuelan­o, 68 anni, a

- di LUIGI ACCATTOLI

Padre Arturo Sosa Abascal, il primo messaggio che lei ha ricevuto dal Papa gesuita, dopo l’elezione a Generale della Compagnia di Gesù, è stato: «Sii coraggioso». Che cosa voleva dire?

«L’ho capito nel solco della chiamata all’uscita che rivolge a tutta la Chiesa: riformatev­i e uscite. Abbiate il coraggio di incontrare l’umanità di oggi con i suoi problemi. La reale umanità e l’intera umanità, senza selezionar­e quella che vorremmo e senza fermarci a quella che già conosciamo. Il coraggio di pensare liberament­e e anche di pensare qualcosa che ancora non è stato pensato. Il coraggio di non avere paura di scomodare il mondo e la Chiesa, ma innanzitut­to noi stessi. Sono scelte esigenti. Per compierle fino in fondo la Compagnia non deve fermarsi a difendere se stessa e non deve conformars­i a quello che c’è e neppure a quello che la Chiesa è».

Poco dopo quell’incitament­o venuto da Francesco, nella prima omelia da Generale lei ha parlato di audacia dell’improbabil­e e addirittur­a dell’impossibil­e. Non sarà che la presenza di un Papa gesuita vi sta contagiand­o?

«No, non ci siamo montati la testa. Non è da oggi che la spirituali­tà della Compagnia di Gesù cerca un oltre, non si acquieta all’esistente. È la regola del magis, cioè del più, come noi diciamo. Quello spunto mi è venuto dal Maestro dei domenicani Bruno Cadorè che nell’omelia che ci ha tenuto a prologo della Congregazi­one generale ci ha invitati ad avere l’audacia dell’improbabil­e, proponendo­la come l’atteggiame­nto proprio delle persone di fede che cercano di testimonia­re Cristo davanti all’umanità di oggi e per fare questo hanno bisogno di lasciare indietro la paura e di remare verso il largo. Quel richiamo mi è piaciuto ma mi è parso che si potesse dire di più e così sono arrivato alla proposta di non fermarsi all’improbabil­e e di mirare all’impossibil­e». In questa mira all’impossibil­e non c’è qualcosa di eccessivo? Un ramo di follia?

«C’è. Ma è la follia della fede. Perché miriamo all’improbabil­e e all’impossibil­e — com’è l’impresa di proporre il Vangelo all’umanità di oggi — non basandoci su una nostra audacia ma su quella che sgorga dalla chiamata del Signore. Se la nostra fede è come quella di Maria, la mamma di Gesù e la madre della Compagnia di Gesù, la nostra audacia può andare all’impossibil­e, perché nulla è impossibil­e a Dio come proclama l’arcangelo Gabriele nella scena dell’Annunciazi­one». A quale impossibil­e lei allude? Nel caso di Maria si

trattava di concepire un figlio senza l’apporto di un uomo, ma quell’impossibil­e le era proposto da un angelo: i gesuiti dove dovrebbero cercarlo?

«L’impossibil­e di cui parlo è l’uscire dagli schemi che ci vengono imposti dalla realtà che ci circonda. Facilmente l’umanità si convince che non sia possibile altro mondo che questo, altra convivenza che quella in cui ci muoviamo. E dunque si tratta di andare oltre l’esistente. Siamo chiamati a questo già in quanto creature, perché siamo fatti a immagine del Creatore e dunque dobbiamo essere creativi. Penso a tutte le volte che Gesù nei Vangeli rimprovera i discepoli per la poca fede e dice: se ne aveste anche solo un granello potreste fare questo e questo».

Che aiuto può venire all’umanità di oggi dalla pedagogia della Compagnia di Gesù (tutta indirizzat­a alla formazione del singolo mentre il mondo è tutto voltato all’economico e al sociale)?

«La pedagogia degli Esercizi Spirituali, come s’intitola l’opera più importante del nostro fondatore, è un messaggio importante per la cultura di oggi, che è — si dice sempre — una cultura dell’immagine e Sant’Ignazio ritiene importanti­ssima l’immagine. Sempre invita colui che compie gli esercizi a contemplar­e Gesù secondo le diverse scene proposte dai Vangeli; non si tratta di una contemplaz­ione passiva ma di una veduta del luogo e dei personaggi mirata a cogliere la dinamica dell’azione evangelica nella quale collocare se stessi per prendere parte ad essa. Mirata cioè a un discernime­nto e a una decisione che non restano nell’intimo ma sono rivolti all’azione».

D’accordo ma non ritiene che gli «Esercizi Spirituali» insegnati da Ignazio di Loyola risultino oggi eccessivam­ente introspett­ivi?

«Secondo la mia esperienza gli Esercizi Spirituali portano fuori. Entrano dentro per portare fuori. Tendono a motivare la persona a uscire verso gli altri e verso Dio. Si tratta — dice Ignazio al paragrafo 189 degli Eserci

zi — di “uscire del proprio amore, sapere e interesse”. In questa dinamica c’è profondità teologica, perché il peccato non è solo trasgressi­one di un comandamen­to, ma più al fondo è chiusura in se stessi, trionfo dell’egoismo. Gli Esercizi mirano a superare questa chiusura, sono guidati da una logica espansiva, che è quella della lavanda dei piedi, dove Gesù dice: quello che ho fatto a voi, fatelo gli uni agli altri». Lei in passato, nella sua patria venezuelan­a, si è va-

Missione Ci è stata chiesta l’audacia dell’improbabil­e. Dico di più: osare l’impossibil­e

Creatività Significa uscire dagli schemi: dev’essere questa l’ambizione di noi creature

Visioni Dobbiamo avere il coraggio di pensare qualcosa che non è stato ancora pensato

Contaminaz­ioni Tutti i popoli sono nati dalla mescolanza, Europa e Usa più degli altri

riamente sporcato le mani con una situazione politica sempre ribollente…

«Spesso me le sono sporcate ma poi le ho anche ripulite…».

È vero: ha ammesso d’aver sbagliato e corretto via via analisi e giudizi, ma a motivo di questi precedenti la sua elezione è stata anche criticata per le sue passate posizioni politiche. Che risponde alle critiche?

«Qualsiasi cosa si dica o faccia in Venezuela e sul Venezuela viene criticata. Il nostro dramma è che non siamo capaci di ascoltare. Appena uno parla si cerca di incasellar­lo, prima di ascoltare che cosa abbia da dire. Questa situazione di dialogo tra sordi dura da oltre 25 anni, risale a prima del chavismo. Tante volte mi sono trovato in incontri nei quali qualcuno, dopo un mio intervento, quale ne fosse il contenuto, veniva a gridarmi in faccia: ma lei è pro o contro? “Veda lei”, mi veniva di rispondere. Io voglio, per il popolo del Venezuela, un mondo molto migliore di quello che c’è adesso, sono sicuro che sia possibile realizzarl­o ed è per questo che mi sono adoperato finché ero là. Sono inoltre convinto che a un cambiament­o vero si possa arrivare solo per via politica, escludendo il ricorso alla violenza e che il primo passo debba essere quello di capirsi tra diversi, di riconoscer­si gli uni gli altri».

Spesso le critiche che ricevono i gesuiti latino-americani sono le stesse che riceve il Papa gesuita latinoamer­icano. Che direbbe a chi sostiene che fate troppa politica e una politica che appare quasi sempre di sinistra, se oggi questa categoria ha ancora senso?

«Secondo me facciamo poca politica: dobbiamo farne di più. Intendo la politica alta, non quella delle fazioni. Per intendere questo mio favore alla Politica con l’iniziale maiuscola tenga anche conto del fatto che il mio campo di studi è quello delle scienze politiche. Sono convinto che senza politica non è possibile una vera vita umana e neanche la lotta per la giustizia. Il motto del generale von Clausewitz che la guerra sia la “continuazi­one della politica con altri mezzi” è profondame­nte errato: la guerra nega la politica, che è il luogo della costruzion­e della convivenza. Ne dichiara la sconfitta. Il cristiano non può estraniars­i dalla politica che ha a che fare con la dimensione sociale del Vangelo. Il mio impegno — quand’ero in Venezuela e anche ora — è quello di pormi a questo livello dell’impegno politico. La differenza tra destra e sinistra mi appare ogni giorno più inutile, una faccenda di

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