Corriere della Sera - La Lettura

Google e Uber: spy guerra per l’auto del futuro

Sotto accusa finisce un ex ingegnere di Mountain View: avrebbe passato migliaia di file sulla macchina che si guida da sé L’azienda di San Francisco trema, lui rischia il carcere

- Di PIETRO MINTO

Uber è abituata alle cause legali. Da quando esiste, l’ azienda di San Francisco che ha rivoluzion­ato il trasporto urbano, si è scontrata con le autorità in quasi tutti i Paesi in cui è sbarcata. Scioperi e proteste di intere categorie profession­ali sono prassi da queste parti, eppure c’è una battaglia legale che sta scuotendo l’azienda dalle fondamenta, insieme a tutta la Silicon Valley. Questa causa non è come le altre perché rischia di mandare personaggi d’alto livello in prigione, ma soprattutt­o perché riguarda «quello che potrebbe essere il business più redditizio della storia», secondo i legali di Uber. Cosa rende questo scontro così importante? Il fatto che di mezzo ci sia Google e un’accusa di furto di documenti riservati relativi alla tecnologia per le macchine auto-guidanti.

Il 23 febbraio Google ha querelato Uber per aver rubato progetti e materiale riservati dell’azienda. Al centro di tutto, Anthony Levandowsk­i, ingegnere, accusato di aver scaricato 14 mila documenti riservati dagli archivi del- l’azienda prima di andarsene da Google e fondare Otto, startup poi acquisita da Uber nel 2016. E non è tutto: sempre secondo l’accusa, Uber sarebbe stata al corrente del furto e avrebbe utilizzato l’acquisizio­ne di Otto per giustifica­re il furto di dati, una sorta di ponte attraverso cui fare transitare brevetti e tecnologie da un’azienda all’altra. Non è una novità che Uber abbia un approccio diretto, quasi aggressivo nei confronti del mercato. È la direzione imposta dal suo ceo e co-fondatore Travis Kalanick, che ha portato l’azienda a una valutazion­e — molto ottimista secondo alcuni — di 69 miliardi di dollari.

Le cose stanno però cambiando e Uber ha avuto finora un anno difficile: lo scorso febbraio una lettera anonima di una ex dipendente ha denunciato il dilagante sessismo ai piani alti dell’azienda, dando vita alla campagna di protesta #deleteuber («cancella Uber», nel senso dell’app), che ha portato mezzo mi- lione di utenti ad abbandonar­e il servizio: molti di questi, secondo il «New York Times», sono passati a Lyft, un’app concorrent­e. Per non parlare delle critiche ricevute dall’azienda per aver avviato una collaboraz­ione con l’amministra­zione Trump, poi ritirata in seguito alle polemiche.

Insomma, un 2017 travagliat­o a cui ora si aggiunge una battaglia legale che potrebbe decidere il futuro dell’unicorno della Valley. Da una parte Uber, l’azienda che ha portato la disruption nei trasporti urbani; dall’altra Google, il colosso che, tra le altre cose, ha inventato le macchine auto-guidanti. Due aziende diverse unite da una storia in comune: nel 2013 la grande G aveva investito 258 milioni di dollari nell’allora startup, un accordo che sembrava destinato a legare le due aziende per anni a venire. Lo sviluppo delle macchine autoguidan­ti ha cambiato tutto: sono cruciali per Uber, che sogna un futuro in cui i suoi taxi possano sfrecciare senza piloti, ma sono state inventate da Google nel 2009. All’epoca fu Google X, la divisione del gigante che si occupa

di «missioni impossibil­i», a realizzare i primi prototipi di automobili in grado di guidarsi da sole; Uber, invece, ha cominciato a investire nel settore solo nel 2015, diventando di fatto concorrent­e del gigante. Le vicende su cui si basa lo scontro legale risalgono però al 2016, quando Google ha creato Alphabet, un’azienda contenitor­e che da allora include tutte le sue divisioni, compresa Waymo, che si occupa delle auto che si guidano da sole. Nello stesso anno l’ingegnere Levandowsk­i — figura chiave nel rivoluzion­ario sistema di guida autonoma — ha lasciato Mountain View. Cosa può spingere un ingegnere rispettato a lasciare un gigante come Google? Un’idea rivoluzion­aria come Otto, startup da lui fondata quello stesso anno con l’obiettivo di creare il primo tir autoguidan­te.

Otto ha fatto sin da subito scalpore, e non solo perché secondo una stima toglierebb­e il lavoro a 1,7 milioni di camionisti negli Stati Uniti. Gli investitor­i sono subito accorsi e tra tutti ha vinto Uber, che ha acquisito l’azienda in un’operazione da 680 milioni di dollari nell’agosto del 2016. A oggi l’accusa deve ancora trovare la proverbial­e «pistola fumante», la prova definitiva del furto di materiale segreto, anche se Google punta tutto su liDAR, uno strumento di navigazion­e che Levandowsk­i avrebbe portato con sé ad Otto. Uber ha respinto ogni accusa mentre l’ingegnere al centro del caso si è rifiutato di far esaminare il proprio computer portatile. Il 12 maggio il giudice William Alsup ha segnato una prima vittoria di Waymo, negando a Uber la possibilit­à di concludere la discussion­e nell’arbitrato e aprendo la strada a un processo pubblico, probabilme­nte a ottobre. Alsup ha scritto che il processo «investighe­rà il possibile furto di segreti industrial­i sulla base delle prove raccolte finora», un percorso legale che potrebbe concluders­i con il carcere per Levandowsk­i.

A rendere la vicenda ancora più affascinan­te, al di là dell’allure offerta dallo scontro tra giganti, ci sono alcuni dettagli su come l’ingegnere si sarebbe fatto scoprire (si tratta ovviamente della versione di Waymo): qualcuno a Google si sarebbe insospetti­to dopo che un loro impiegato aveva ricevuto una mail con oggetto «Otto files», inviata per errore. Oltre alla parola «Otto» — piuttosto sospetta — contenuta nel soggetto, la mail proveniva da uno dei fornitori per la produzione del citato liDAR. I responsabi­li di Waymo hanno così deciso di controllar­e il laptop utilizzato da Levandowsk­i nel suo periodo a Google, scoprendo che, poco prima di andarsene, aveva scaricato quasi 10 gigabyte di dati, i 14 mila documenti sottratti all’azienda (Google ha anche precisato che «di solito» questo tipo di controlli non li fa, se non in maniera casuale). L’operazione Otto — la sua fondazione e il suo passaggio a Uber — sarebbe quindi un intricato piano tra Levandowsk­i e l’azienda di Kalanick per sottrarre a Waymo i dettagli sul liDAR e portarlo alla concorrenz­a. Le somiglianz­e tra il liDAR di Waymo e quello di Otto, sempre secondo l’accusa, sarebbero «notevoli», anche se Uber ha elencato le differenze sostanzial­i tra i due modelli e ricordato di aver cominciato a investire nel settore della guida autonoma un anno prima dell’arrivo di Levandowsk­i.

Comunque andrà, qualche danno è già stato fatto: lo sviluppo della tecnologia di Uber dovrà procedere senza il contributo di Levandowsk­i, mentre la ricerca dei grandi talenti su cui si basa l’innovazion­e continua della Valley è stata messa a dura prova dagli ultimi scandali che hanno colpito la società.

L’8 maggio Waymo ha annunciato di aver raggiunto un accordo con Lyft per lo sviluppo della macchina auto-guidante. Proprio Lyft, il più grande concorrent­e di Uber che così rischia di rimanere indietro in un campo essenziale come quello della guida autonoma. Appena un anno fa il ceo Kalanick aveva detto al sito «Business Insider»: «Bisogna capire che il futuro si baserà sulle macchine auto-guidanti e autonome. Quindi che ne sarà di noi se non entriamo in questo settore? Succederà che il futuro ci sorpasserà». La posta in gioco, per Uber, non è mai stata così alta.

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 ??  ?? Anthony Levandowsk­i (1980). Nella pagina accanto: Nick Gentry (Londra, 1980), Floppy Disk Portrait (2014, mixed media, olio su tavola, floppy disk usati), courtesy dell’artista / C24 Gallery, New York. L’artista ha riciclato floppy disk usati per rappresent­are quella che lui ha definito la «Nuova Generazion­e X»
Anthony Levandowsk­i (1980). Nella pagina accanto: Nick Gentry (Londra, 1980), Floppy Disk Portrait (2014, mixed media, olio su tavola, floppy disk usati), courtesy dell’artista / C24 Gallery, New York. L’artista ha riciclato floppy disk usati per rappresent­are quella che lui ha definito la «Nuova Generazion­e X»

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