Corriere della Sera - La Lettura
Un talento così costruito da essere autentico
Attraverso il personaggio di una quindicenne trasformata in un’icona musicale dal suo pigmalione, Violetta Bellocchio racconta una storia di possessione e una storia di redenzione. La prima funziona, la seconda no
Una storia di possessione, una storia di redenzione. La prima funziona, la seconda no. Mi chiamo Sara, vuol dire principessa, il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio, è terreno di scontro tra due progetti narrativi che tendono strenuamente in direzioni opposte; tanto opposte che, per fortuna, la seconda non riesce a offuscare la strabiliante fosforescenza della prima.
La vicenda, siamo negli anni Ottanta, è narrata dalla protagonista, Sara, che a quindici anni decide di abbandonare il paesino in provincia di Piacenza dove sobbolle la sua certezza di essere diversa da tutti, in primo luogo dalle ragazze che le assomigliano, e parte per Milano nel tentativo di essere notata e presa in carico dal suo idolo, Antonio detto Tony, il deejay del momento. E ci riesce. La fascinazione diventa subito reciproca. La specialità di Tony è lanciare nuovi talenti, ma in Sara la sua volontà di potenza intravede una meta più alta, più tracotante: inventare un personaggio da zero, crearlo letteralmente dal nulla. Sara non ha nessun talento, almeno nel campo della musica, e non sa niente di niente. Ma ha fiducia nel suo corpo, in ciò che può fare il suo corpo: diventare un’immagine, annullarsi e insieme risplendere innaturalmente come fosse una cosa, un oggetto inanimato, un pezzo di creta che, modellato e dipinto, può risplendere come la più smaltata delle porcellane. A Tony il compito di trasformarla in Roxana, curando ogni suo minimo tratto fisico, il modo di camminare, di parlare e di comportarsi — ma non di cantare: Roxana è doppiata in playback da una oscura professionista che rinuncia ai diritti d’autore. Tutto co- struito, tutto artefatto, ma insieme tutto autentico, perché autentica è la corrispondenza, la sincronia del desiderio di entrambi.
Potrebbe sembrare infatti che ci sia tra i due un rapporto di dominazione a tutto svantaggio della giovanissima Sara, ma non è così. La dominazione è reciproca, la fascinazione è reale, il rapporto che da pigmalionico diventa subito amoroso è vissuto sinceramente: sei mia, sono tua, ma anche tu sei mio: ognuno desidera il desiderio dell’altro, e il contesto oggi così screditato della Milano da bere, con la sua fiera delle vanità e delle delusioni, non annulla il fatto che qualcosa di magico è accaduto davvero. Violetta Bellocchio è riuscita a rappresentare dall’interno una forma del desiderio difficilissimo da intercettare, e da comprendere senza giudicare. Lo scenario è squallido solo visto retrospettivamente, non se guardato con gli occhi della Sara di allora: la sua felicità, la sua dedizione, il suo sogno ricorrente di incontrare nel bosco un lupo buono che la morda, la contrassegni e la trasformi in qualcosa di diverso si realiz- za sul serio. C’è da chiedersi come l’autrice ci sia riuscita, facendo sì che il lettore veda e senta con gli occhi e con il corpo di Sara, felicissima di essersi sdoppiata in Roxana, non assumendo mai lo sguardo dell’antropologo che non crede alle possessioni, alle vocazioni totemiche e, va da sé, nemmeno alla genuinità dei sentimenti di chi vive senza ripensamenti nel glittering contraffatto della cultura pop. Inverosimile ma vero.
Purtroppo, però, verso la metà del romanzo il verosimile, se non la realtà, reclama i suoi diritti, e la possessione perfetta si incrina per poi spezzarsi. Sara parte per una tournée estiva e prova attrazione per un ragazzo, musicista vero. Al ritorno ritrova Tony innamorato di un altro progetto se non di un’altra donna. Ne segue un periodo di disagio fisico e psichico, ipocondrie e ipotesi di suicidio, fino a che Sara non decide di lasciare colui che è ormai scaduto al ruolo di banalissimo mentore e parte alla ricerca del musicista fragile e autentico che le aveva lasciato il suo telefono, con uno sviluppo ulteriore che lasceremo al lettore di scoprire. Roxana, la creatura magica, è sparita per sempre, e Sara regredisce da cosa a persona: un progresso nella vita «là fuori», ma un peccato per il romanzo. Non che la scrittura di Bellocchio perda tensione e smetta di caratterizzare con un dettato sempre incisivo e spesso memorabile i casi e i pensieri della sua protagonista. Ma è la storia del ritorno alla vita, o alla realtà, o alla verità, a deludere chi aveva provato una gratitudine inedita per un personaggio che gli aveva fatto vivere la seduzione dell’affatturamento, l’ebbrezza della cattura, una coincidenza così ferrea tra destino e ambiente da rendere del tutto insignificante la consapevolezza di quanto falso e degradato quell’ambiente sia. Questo lo sapevamo già, cosa provassero Morgana e Merlino invece no: «Ero bellissima e grande, ero lucida, nuova e sporca. Questa sono io, ho pensato. Poi io sono sparita, e al mio posto c’era di nuovo soltanto la parete bianca, non vedevo altro, ma ho sentito che chiuso là dentro c’era tutto il mondo, e tutto il mondo stava guardando me. Tutto il mondo stava guardando quanto ero bella».
Era questo che Sara aveva chiesto e avuto da Tony: che il suo sguardo coincidesse con lo sguardo del mondo; ciò che vogliono tutti e non accade a nessuno. Fama caduca, felicità immeritata? Che importa, e poi quale vera felicità lo è? Peccato perciò che, in cambio di un possibile happy ending, di Roxana non resti traccia e Sara ritorni una qualunque come noi.