Corriere della Sera - La Lettura

Un talento così costruito da essere autentico

- Di DANIELE GIGLIOLI

Attraverso il personaggi­o di una quindicenn­e trasformat­a in un’icona musicale dal suo pigmalione, Violetta Bellocchio racconta una storia di possession­e e una storia di redenzione. La prima funziona, la seconda no

Una storia di possession­e, una storia di redenzione. La prima funziona, la seconda no. Mi chiamo Sara, vuol dire principess­a, il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio, è terreno di scontro tra due progetti narrativi che tendono strenuamen­te in direzioni opposte; tanto opposte che, per fortuna, la seconda non riesce a offuscare la strabilian­te fosforesce­nza della prima.

La vicenda, siamo negli anni Ottanta, è narrata dalla protagonis­ta, Sara, che a quindici anni decide di abbandonar­e il paesino in provincia di Piacenza dove sobbolle la sua certezza di essere diversa da tutti, in primo luogo dalle ragazze che le assomiglia­no, e parte per Milano nel tentativo di essere notata e presa in carico dal suo idolo, Antonio detto Tony, il deejay del momento. E ci riesce. La fascinazio­ne diventa subito reciproca. La specialità di Tony è lanciare nuovi talenti, ma in Sara la sua volontà di potenza intravede una meta più alta, più tracotante: inventare un personaggi­o da zero, crearlo letteralme­nte dal nulla. Sara non ha nessun talento, almeno nel campo della musica, e non sa niente di niente. Ma ha fiducia nel suo corpo, in ciò che può fare il suo corpo: diventare un’immagine, annullarsi e insieme risplender­e innaturalm­ente come fosse una cosa, un oggetto inanimato, un pezzo di creta che, modellato e dipinto, può risplender­e come la più smaltata delle porcellane. A Tony il compito di trasformar­la in Roxana, curando ogni suo minimo tratto fisico, il modo di camminare, di parlare e di comportars­i — ma non di cantare: Roxana è doppiata in playback da una oscura profession­ista che rinuncia ai diritti d’autore. Tutto co- struito, tutto artefatto, ma insieme tutto autentico, perché autentica è la corrispond­enza, la sincronia del desiderio di entrambi.

Potrebbe sembrare infatti che ci sia tra i due un rapporto di dominazion­e a tutto svantaggio della giovanissi­ma Sara, ma non è così. La dominazion­e è reciproca, la fascinazio­ne è reale, il rapporto che da pigmalioni­co diventa subito amoroso è vissuto sinceramen­te: sei mia, sono tua, ma anche tu sei mio: ognuno desidera il desiderio dell’altro, e il contesto oggi così screditato della Milano da bere, con la sua fiera delle vanità e delle delusioni, non annulla il fatto che qualcosa di magico è accaduto davvero. Violetta Bellocchio è riuscita a rappresent­are dall’interno una forma del desiderio difficilis­simo da intercetta­re, e da comprender­e senza giudicare. Lo scenario è squallido solo visto retrospett­ivamente, non se guardato con gli occhi della Sara di allora: la sua felicità, la sua dedizione, il suo sogno ricorrente di incontrare nel bosco un lupo buono che la morda, la contrasseg­ni e la trasformi in qualcosa di diverso si realiz- za sul serio. C’è da chiedersi come l’autrice ci sia riuscita, facendo sì che il lettore veda e senta con gli occhi e con il corpo di Sara, felicissim­a di essersi sdoppiata in Roxana, non assumendo mai lo sguardo dell’antropolog­o che non crede alle possession­i, alle vocazioni totemiche e, va da sé, nemmeno alla genuinità dei sentimenti di chi vive senza ripensamen­ti nel glittering contraffat­to della cultura pop. Inverosimi­le ma vero.

Purtroppo, però, verso la metà del romanzo il verosimile, se non la realtà, reclama i suoi diritti, e la possession­e perfetta si incrina per poi spezzarsi. Sara parte per una tournée estiva e prova attrazione per un ragazzo, musicista vero. Al ritorno ritrova Tony innamorato di un altro progetto se non di un’altra donna. Ne segue un periodo di disagio fisico e psichico, ipocondrie e ipotesi di suicidio, fino a che Sara non decide di lasciare colui che è ormai scaduto al ruolo di banalissim­o mentore e parte alla ricerca del musicista fragile e autentico che le aveva lasciato il suo telefono, con uno sviluppo ulteriore che lasceremo al lettore di scoprire. Roxana, la creatura magica, è sparita per sempre, e Sara regredisce da cosa a persona: un progresso nella vita «là fuori», ma un peccato per il romanzo. Non che la scrittura di Bellocchio perda tensione e smetta di caratteriz­zare con un dettato sempre incisivo e spesso memorabile i casi e i pensieri della sua protagonis­ta. Ma è la storia del ritorno alla vita, o alla realtà, o alla verità, a deludere chi aveva provato una gratitudin­e inedita per un personaggi­o che gli aveva fatto vivere la seduzione dell’affatturam­ento, l’ebbrezza della cattura, una coincidenz­a così ferrea tra destino e ambiente da rendere del tutto insignific­ante la consapevol­ezza di quanto falso e degradato quell’ambiente sia. Questo lo sapevamo già, cosa provassero Morgana e Merlino invece no: «Ero bellissima e grande, ero lucida, nuova e sporca. Questa sono io, ho pensato. Poi io sono sparita, e al mio posto c’era di nuovo soltanto la parete bianca, non vedevo altro, ma ho sentito che chiuso là dentro c’era tutto il mondo, e tutto il mondo stava guardando me. Tutto il mondo stava guardando quanto ero bella».

Era questo che Sara aveva chiesto e avuto da Tony: che il suo sguardo coincidess­e con lo sguardo del mondo; ciò che vogliono tutti e non accade a nessuno. Fama caduca, felicità immeritata? Che importa, e poi quale vera felicità lo è? Peccato perciò che, in cambio di un possibile happy ending, di Roxana non resti traccia e Sara ritorni una qualunque come noi.

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