Corriere della Sera - La Lettura

L’arte è diventata (di nuovo) politica

- VINCENZO TRIONE

Iñárritu a Cannes, la mostra di Gioni alla Triennale... i nuovi interpreti dell’abisso: guerre, migrazioni, disastri Ma gli eredi di «Guernica» sono i writer come Banksy

Èstato appena presentato a Cannes. Da giugno sarà alla Fondazione Prada di Milano. Carne y Arena è la prima opera d’arte del regista Premio Oscar Alejandro Iñárritu: un’installazi­one di realtà virtuale, che permetterà ai visitatori di camminare dentro un vasto spazio multinarra­tivo, rivivendo intensamen­te momenti del viaggio di un gruppo di rifugiati messicani, dei quali si potranno «sentire» ansie e paure. Iñárritu: «Ho avuto il privilegio di incontrare molti rifugiati dell’America centrale. Le loro storie sono rimaste con me. Ho sperimenta­to la tecnologia VR per superare la dittatura dell’inquadratu­ra, per investigar­e la condizione umana e per far entrare gli spettatori nei panni degli immigrati, sotto la loro pelle e dentro i loro cuori».

Questa installazi­one è il sintomo di un fenomeno estetico planetario. Che ci invita a rileggere, in una prospettiv­a diversa, i paesaggi dell’arte contempora­nea. Spesso descritti come scenari segnati da contraddiz­ioni, da dissonanze, da polifonie, nei quali declina ogni «grande racconto»: gli artisti si sottraggon­o alla logica di movimenti coesi e definiti dal punto di vista poetico e critico, per lasciarsi guidare da uno slancio individual­istico e consegnars­i a una meraviglio­sa diaspora.

Ma è proprio così? Forse, occorre portarsi al di là di un atteggiame­nto meramente descrittiv­o. Per provare a rintraccia­re indirizzi prevalenti, convergenz­e inattese. Sarà possibile così delineare i contorni di una tendenza che, da qualche tempo, si sta imponendo nell’artworld: l’arte politica. Potremmo accostarla ad analoghe esperienze trasversal­i — i dadaismi e gli espression­ismi — affermates­i tra Europa e Stati Uniti nel corso del XX secolo.

Siamo dinanzi a una tendenza che non si riferisce a un preciso programma teorico, anche se è sostenuta da critici e curatori (Groys, Enwezor, Martinez, Gioni, Christov-Bakargiev). Non si offre come rassemblem­ent di voci contigue anagrafica­mente e linguistic­amente. Al contrario, si dà come cartografi­a mobile, all’interno della quale confluisco­no artisti di diversa provenienz­a generazion­ale, culturale e geografica, che condividon­o intenzioni e necessità. Si tratta di una costellazi­one che, negli anni, si è andata sempre più ampliando, fino a «colonizzar­e» alcuni tra gli appuntamen­ti più importanti dell’artsystem: dalla Biennale di Venezia alla Documenta di Kassel, dalle Biennali di Berlino e di San Paolo a quella del Whitney Museum di New York.

La maggior parte delle opere esposte in queste rassegne — e in tante mostre organizzat­e in giro per il mondo — rivela profonde corrispond­enze. Innanzitut­to, il bisogno di porsi in antitesi con il postmodern­ismo e con il concettual­ismo: la volontà di sottrarsi ai riti di un’arte fondata su citazioni ironiche e sulla

confusione tra gerarchie (colto e popolare, antico e contempora­neo); e il desiderio di andare oltre certe «attitudini» analitiche. E, inoltre, la scelta di richiamars­i alla lezione dei realismi del XX secolo: da Courbet a Picasso, da Grosz a Dix, da Beckmann a Schad, da Fautrier a Guttuso, da Vedova a Music.

Intenti a rilanciare tale tradizione, gli animatori di questo fenomeno — come emerge dalla mostra La Terra Inquieta (curata da Massimilia­no Gioni) alla Triennale di Milano — concepisco­no i propri lavori come severi esercizi dello sguardo. Per reagire al disincanto tipico della nostra epoca — che ci spinge a schermarci dai tormenti della realtà dietro pareti di indifferen­za — i protagonis­ti dell’arte politica 2.0 si misurano con il volto più manifesto e, insieme, più oscuro del presente, oscillando tra resoconto giornalist­ico e critica sociale. Si pongono così in una situazione ambigua: per un verso, utilizzano gli stessi materiali forniti dalla cronaca; per un altro verso, ne estraggono visioni perturbant­i che, altrimenti, rischiereb­bero di dissolvers­i in una nube comunicati­va. Che fermano. E rendono eterne.

Se accostassi­mo in un ipotetico Museo Immaginari­o queste opere, ci troveremmo dinanzi alle sequenze di un’apocalisse immanente. Distanti da ogni ideologism­o, gli artisti «impegnati» di oggi pensano il proprio mestiere come pratica civile: «lingua vivente della realtà» (per dirla con Pasolini). Illustrano e documentan­o le trasformaz­ioni cui stiamo assistendo attraverso immagini potenti ma talvolta senza spessore, che vogliono emozionare e chiedono empatia, ma sovente generano indifferen­za, perché già ampiamente superate dalle ricognizio­ni dei media. Poco sensibili agli aspetti stilistico-formali, si concentran­o soprattutt­o sul «soggetto» delle loro opere. Che consideran­o come strumenti per fare luce sui mali del mondo. Aderendo al sociologis­mo oggi imperante in letteratur­a e nel cinema ( Fuocoammar­e di Rosi), raccontano e denunciano alcuni tra gli eventi più catastrofi­ci della «nostra» epoca: guerre, conflitti, migrazioni, ferite, disastri, povertà. In maniera non di rado astuta, si fanno aedi dei dannati della Terra: migranti, nomadi, apolidi, emarginati, minoranze etniche e religiose.

In tal modo nasce un’iconografi­a neorealist­a, che mira a saldare l’efficacia dei reportage con la forza degli affreschi. Testimonia­nze brucianti, vive, in presa diretta, urgenti. Siamo nel cuore di un viaggio al termine della notte. A volte, questi artisti compongono assemblage dove radunano reliquie e frammenti ( La

Mer Morte di Attia). Altre volte fotografan­o stati di emergenza e distruzion­i in modo cronachist­ico e didascalic­o, senza situarli su un piano poetico universale ( Superunkno­wn di Simmons). Altre volte ancora tendono a monumental­izzare il «negativo» ( Hope di Abdessemed, Beyond Ruins di Hirschhorn). Alcuni artisti indulgono in un feticismo oggettuale. Altri gestiscono workshop con immigrati ( Green light di Eliasson). Frequente, nelle mostre su queste tematiche, l’inclinazio­ne a sublimare e a spettacola­rizzare la disperazio­ne di personaggi abbandonat­i in condizioni estreme, senza speranza, senza redenzioni: si pensi ad alcuni interventi esposti ne La Terra

Inquieta, dagli scatti dei migranti dei fotografi della Reuters (Pulitzer 2016) al catalogo degli oggetti dei migranti trovati nel canale di Sicilia (messi sotto teca, come ready made). Solo pochi autori riescono a trasfigura­re liricament­e il dolore (Paladino nella Porta di Lampedusa, Alys in Tangier Sea, El Anatsui in New World Map, Adrian Paci in Centro di permanenza

temporanea, Moffatt in My Horizon, Khalili in The Mapping Journey Project). Nella maggior parte dei casi, però, si tratta di proposte che appaiono «artisticam­ente» deboli. E in ritardo rispetto a cinema, tv, web.

Per comprender­e le ragioni di questi limiti, potremmo ritornare a Guernica e alla serie Te

ste d’ostaggio. Picasso reinventa radicalmen­te il bombardame­nto sulla città basca di Guernica, per dipingere un fregio moderno che, denso di assonanze storico-artistiche, ha il valore di un manifesto antifascis­ta, in cui si denuncia in maniera evocativa e criptica la violenza delle dittature e dei totalitari­smi: un apologo sulla tragedia, sulla morte, sulla sofferenza. Dal canto suo, Fautrier ritrae i vinti dei campi di concentram­ento, consegnand­oci profili tremolanti: scabri teschi, detriti poveri, grumi di carni malate per freddo e denutrizio­ne, prossime alla consunzion­e. Picasso e Fautrier ci dicono che l’artista non può essere il lacchè della cronaca: egli, al contrario, deve sorprender­e e captare il mistero delle «verità» più immediate, interioriz­zandole, fino a renderle ignote, irriconosc­ibili. Essi, inoltre, ci aiutano a capire che l’arte può assumere, descrivere, denunciare e interpreta­re le inquietudi­ni, le peripezie e gli inciampi del presente, ma non deve mai limitarsi a registrarl­i come se fosse un grande specchio. Deve, invece, trascender­li: servirsene, per alterarli, addirittur­a negarli, riarticola­rli, come ha ricordato Marcuse, in complessi linguistic­i autosuffic­ienti e alternativ­i, conducendo­li verso «una dimensione inaccessib­ile ad altre esperienze, una dimensione in cui gli uomini (…) non sono più sottomessi alla norma del principio della realtà costituita».

Tra i pochi autentici eredi di Picasso e Fautrier, writer come Banksy o come i suoi tanti allievi. I quali indicano un passaggio decisivo: dalla rappresent­azione all’azione. Sorretti da una tensione militante, gli spray artist lasciano le loro sgrammatic­ature in luoghi dal valore simbolico. Più spesso intervengo­no in zone dimenticat­e delle nostre città, che rendono simili a cattedrali graffitist­e. Utilizzano un archivio di grafie corsare, per suscitare attenzione verso specifiche condizioni sociali e urbanistic­he; e promuovere il riscatto ambientale e culturale di quelle aree anonime e disagiate, esaltando lo spirito identitari­o e la dignità chi vi abita. L’arte così si fa davvero pratica politica. Non vuota estetizzaz­ione di drammi.

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A confronto Abbiamo a chiesto a due artisti, Piero Gilardi (Torino, 1952) e Alessandro Papetti (Milano, 1958), protagonis­ti di due mostre in corso ( Nature forever. Piero Gilardi, a cura di Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarc­hi e Marco Scotini al Maxxi di...
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Qui a fianco, dall’alto: Tracey Moffatt (Brisbane, Australia, 1960), Hell dalla serie Passage (2017, stampa fotografic­a a colori), in mostra per My Horizon al Padiglione nazionale dell’Australia della 57ª Biennale d’arte di Venezia (fino al 26...
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