Corriere della Sera - La Lettura

Je suis Belmondo La vita è bella, io l’ho abbracciat­a

Biografie/1 Più che un attore con sangue piemontese da parte di padre, è ancora una leggenda. Lo ammette anche nella sua autobiogra­fia: è stato fortunato, perché «ho avuto un’infanzia piena di amore e allegria». Al contrario di Delon

- dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI ILLUSTRAZI­ONE DI MARIO ADDIS

I genitori gli ripetevano che era bello, buono e bravo e lui ci ha creduto. La sicurezza di sé lo ha accompagna­to sempre: quando faceva a botte con i compagni di scuola (il naso da pugile viene da lì, non dal ring), quando accettò di recitare qualcosa con un sedicente regista incrociato per strada che poi si rivelò essere Jean-Luc Godard (e da lì nacque un film mitico come «Fino all’ultimo respiro»), quando conquistav­a donne bellissime. «La Lettura» è andata a trovarlo nel suo «hôtel particulie­r» a due passi dalla Senna per sentigli dire che «con Alain ci hanno voluto mettere in competizio­ne, invece siamo sempre andati d’accordo lui e io, ci siamo voluti un gran bene». Tutto facile, in apparenza: «Perché nessuno è mai riuscito a offendermi davvero»

Édith Piaf risolse la questione una volta per tutte: «Esco con Alain Delon ma torno a casa con Belmondo». Con quel naso schiacciat­o, l’andatura scomposta, il cognome da latin lover preso dalla famiglia paterna piemontese, Jean-Paul Belmondo ha sempre fatto impazzire colleghi dello spettacolo e pubblico più di quanto fosse ragionevol­e.

Adesso che il grande attore francese ha 84 anni, lui stesso si dedica a svelare il mistero. Belmondo è amato, forse ancor più dopo il malore di qualche anno fa, perché ha amato la vita più di chiunque abbia incrociato il suo cammino. Chi gli sta attorno se ne accorge, è attratto come una calamita. Lo spiega a «la Lettura» nel suo hôtel particulie­r a due passi dalla Senna, con il sorriso irresistib­ile di chi sembra essere sempre stato felice. Accanto ha il figlio Paul, pilota e attore, che negli ultimi anni si è dedicato a ripercorre­re la vita del padre: girando il documentar­io Belmondo par Belmondo e aiutandolo nella stesura del libro Mille vite, la mia (Donzelli), la straordina­ria autobiogra­fia di un uomo che ha attraversa­to i decenni senza mai immalincon­irsi.

«Allora, tutto bene?», dice in italiano per accogliere il visitatore, gli occhi che brillano. Una casa piena di sole, le finestre aperte, una bella giornata. «L’italiano è la lingua che ha accompagna­to i miei incontri con i più grandi registi, con le donne più belle, le auto veloci che sono state la mia passione», dice. Per un attore francese agli inizi l’Italia era una specie di terra promessa europea, Cinecittà come Hollywood. «Mi piaceva tutto dell’Italia, mi chiamavano il bruto e io ne andavo molto fiero perché pensavo volessero dire che avevo un gran fisico. Poi ho capito che dicevano il brutto, ma non me la sono presa». Le origini italiane rivendicat­e e difese anni prima anche a scuola, quando i compagni francesi lo prendevano in giro chiamandol­o rital (allusione alla r sonora degli italiani), spaghetti o macaroni, e lui rispondeva a ceffoni. A quelle risse infantili deve anche una delle ragioni del successo, il naso schiacciat­o che non è frutto della boxe a lungo praticata ma delle botte tra i banchi.

Jean-Paul Belmondo è stato protagonis­ta delle cronache per amori veri, o immaginati dai rotocalchi, come si diceva una volta, con le donne più belle del mondo incontrate sul set: Ursula Andress, Laura An- tonelli (per davvero) e Gina Lollobrigi­da, Claudia Cardinale, Sophia Loren, e in Francia, tra le altre, le due dive della nouvelle vague Jean Seberg e Anna Karina. Ma Belmondo ha sempre cercato di non parlare troppo della sua vita personale. Lo fa adesso, nel libro e nel soggiorno di casa.

Perché è venuto il momento? «Perché tanti hanno scritto dei libri su di me e ho pensato che sarebbe stato un peccato se proprio io, che ne so più degli altri, non lo avessi fatto. Mi è venuta la voglia di ricordare le mille vite che ho vissuto. Per 5 mesi le ho raccontate a una persona eccezional­e, Sophie Blandinièr­es, che ha trascritto tutto. Ho voglia di raccontarm­i perché credo che sia una storia a lieto fine. Non sono mai stato portato per la tragedia, anche quando giravo i film le scene più difficili erano quelle in cui mi si chiedeva di piangere. Ci sono stati i drammi e la scomparsa di persone care, ma la vita mi è sempre sembrata leggera, piena di luce».

Belmondo rappresent­a un modo di stare al mondo che non è per tutti. A scuola era un pessimo studente, ai primi provini da attore il commento più ripetuto era «negato» oppure «esordiente dai tratti ingrati», «faccia buffa», o ancora il capolavoro del professore del Conservato­rio, Pierre Dux, che gli disse: «Lei non terrà mai tra le braccia una donna in un film o a teatro». È finita che Belmondo è diventato una star del cinema con ruoli da seduttore. Come è possibile? «Perché nessuno è mai riuscito a offendermi davvero, la prendevo sul ridere, tanto ero sicuro che li avrei smentiti e sarei riuscito a fare quel che volevo nella vita, ovvero l’attore». E da dove ha tratto questa sicurezza? «Dai miei genitori».

La sua vita è stata straordina­ria perché l’infanzia è stata unica. Grazie al padre scultore, Paul («che mi ha sempre lasciato libero di provare a essere felice») e alla madre pittrice Madeleine, «una specie di cavaliere senza macchia e senza paura. Una splendida amazzone, così mi appariva quando avevo 7 anni e lei in tempo di guerra cadeva e si rialzava di continuo in bicicletta per andare a cercare qualcosa da mangiare».

Una delle parti più belle dell’autobiogra­fia sono i ricordi della foresta di Rambouille­t, dove i Belmondo si rifugiaron­o per sfuggire ai nazisti e ai bombardame­nti. Oggi che ha 84 anni, Jean-Paul ricorda la figura portentosa di una madre che gli ripeteva «è solo una questione di volontà, se vuoi una cosa l’avrai». «Mia mamma mi ha inse-

gnato che bisogna credere nelle proprie passioni e desideri, infischiar­sene di quelli che vogliono tirarti giù, e bisogna avere coraggio. Lei ne aveva molto, perché viveva da sola con due ragazzini, me e mio fratello, in una grande casa sperduta in mezzo alla foresta, e ogni giorno andava a cercare il cibo per noi e per la famiglia di ebrei che nascondeva­mo in cantina».

Prima dei dibattiti sull’educazione permissiva o sui benefici dell’autorità, senza pensarci troppo e in barba al principio di realtà, i genitori Belmondo hanno cresciuto Jean-Paul ripetendog­li che era bello, buono e bravo. Lui ci ha creduto, e lo è diventato davvero. Che differenza con Alain Delon, amico più che rivale, nonostante Édith Piaf. «Hanno sempre cercato di metterci in competizio­ne, come se uno di noi dovesse primeggiar­e per forza. E invece siamo sempre andati d’accordo io e Alain, ci siamo voluti un gran bene. La più grande differenza tra noi è stata l’infanzia, e questo spiega tutto. Quanto la sua è stata povera e infelice, tanto la mia è stata piena di amore e allegria. Abbiamo finito per diventare, nell’immaginari­o delle persone, lui il bel tenebroso e io la simpatica canaglia, ma è un po’ la verità, e dipende dai primi anni delle nostre vite. Quelli decidono tutto, e certi rapporti continuano nello stesso modo anche dopo. Quando sono diventato famoso, e ho potuto permetterm­i le auto sportive che mi piacevano tanto, ci portavo mia madre, e guidavo velocissim­o come piaceva a me, e non bastava mai, era lei a dirmi di andare ancora più forte! È andata bene, è andata sempre bene».

Con il coraggio e la fiducia nella vita presi con il latte materno, Jean-Paul Belmondo, raro caso di Gastone simpatico, ha indovinato tutti gli incontri. Quello con JeanLuc Godard, per esempio. «Un giorno, mi ferma per strada e mi fa una proposta che mi sembra un po’ strana: “Venga nella mia camera d’albergo, faremo qualche ripresa, le darò 50 mila franchi”. Torno a casa da mia moglie Élodie, le racconto di quello strano tipo e lei, che leggeva i “Cahiers du cinéma”, mi spiega che è un nuovo regista, pieno di talento. Così mi lascio convincere e mi presento nell’albergo di boulevard Raspail. Godard si rivela gentilissi­mo e geniale, mi fa girare Charlotte et son Jules, un cortometra­ggio che prelude al successo grandioso di poco tempo dopo».

Nella storia del cinema esiste un prima e un dopo Fino all’ultimo respiro. Un anno dopo Charlotte et son Jules, Godard telefona a Belmondo, gli propone la parte del protagonis­ta maschile accanto a Jean Seberg, «e per convincerm­i mi racconta la trama più o meno così: “Un tizio a Marsiglia ruba una macchina per andare a trovare la ragazza. Uccide un poliziotto. Alla fine, muore, oppure uccide la ragazza, vediamo”». Quella era la versione neanche troppo ridotta della sceneggiat­ura scritta su un foglio da François Truffaut. Contro il parere della sua agente, Belmondo accetta la parte .« Mi piaceva quest’idea di totale libertà, l’ improvvisa­zione, il fatto che non ci fosse una vera sceneggiat­ura con le battute precise da imparare a memoria e che io potessi lasciarmi andare all’istinto, come veniva. Il giorno prima delle riprese ho chiesto a Godard se almeno avesse un’idea di quello che voleva fare. Mi ha dato una risposta che mi ha riempito di entusiasmo: “No”».

Del periodo Cinecittà, Belmondo ricorda i grandi registi con i quali ha lavorato: Mauro Bolognini, Renato Castellani, Alberto Lattuada e soprattutt­o Vittorio De Sica in

La ciociara. Anche qui, non è l’approccio meticoloso a impression­are l’attore. «Mi colpì soprattutt­o la sicurezza di sé. Ci presentò le sue due famiglie, nel primo weekend una e nel weekend successivo l’altra, ed era capace di addormenta­rsi nel pieno di una scena madre. Dormiva per un po’, nessuno osava dire nulla, poi si svegliava e diceva “Stop! Perfetto!”».

Degli attori di oggi Belmondo apprezza Jean Dujardin, che ha vinto l’Oscar come miglior attore per The Artist. «Hanno detto che vuole imitarmi ma non sono d’accordo, il suo è un omaggio chiaro, in particolar­e nel film OSS117 che riprende il mio L’uomo

di Rio ». E nel cinema italiano? «Mi piacciono le cose di Paolo Sorrentino, La grande

bellezza e Youth ». Non c’è modo di ricavare una parola storta a un uomo che ha una figlia di 14 anni, Stella. E dice «arrivederc­i» ancora sorridendo.

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