Corriere della Sera - La Lettura

Un abbraccio silenzioso nella notte di Israele

- Di ESHKOL NEVO

Uno scrittore (chiarament­e di sinistra) viene invitato a parlare in un insediamen­to di ebrei (non La trama C’è una donna, vedova con tre figli. E c’è il

chiarament­e ortodossi). Alla fine dell’incontro succede qualcosa, che lo costringe a tratteners­i a dormire lì qualcosa? Finché nel buio si avvicina questo corpo solitario che si scioglie in una stretta di calore

Non ho avuto esitazioni prima di incontrare i lettori dell’insediamen­to Ma’ale Meir. Nei miei libri cerco proprio — fra l’altro — di negare che esista una sola verità, di scalzare i narratori che si consideran­o onniscient­i, come potrei dire di no all’opportunit­à di conoscere persone che pensano e vivono in modo tanto diverso da me? E poi me l’avevano chiesto così gentilment­e. Lei, me l’aveva chiesto. Iris. La biblioteca­ria. Qui da noi amano molto i tuoi libri, mi aveva scritto. Aggiungend­o poi: anch’io. Li amo molto. E aveva concluso con uno smiley.

Abbiamo fissato la data. Ho pregato soltanto di essere prelevato dal posto di blocco con una macchina blindata. In fondo, siamo nel pieno di quella che definirei una nuova intifada.

La macchina blindata non te la posso garantire, ha risposto Iris, ma la mia Fiat è protetta dal lancio di sassi. Può andare per te?

Ero in trappola: avevo già accettato di andare, e poi mi vergognavo ad ammettere che quello che era sufficient­e per Iris, non lo era per me, perciò ho detto, sì. Certo.

Ti aspettavi di trovarti davanti un’ortodossa, eh? Ha commentato quando sono salito in macchina. In effetti… sì, ho ammesso. Con un brutto cappello e lo sguardo da fanatica. E magari l’accento americano, leggerissi­mo eppure sempre riconoscib­ile. Più o meno. Molto piacere, Iris, mi ha porto la mano. E mi ha regalato un sorriso che in quel momento mi è erroneamen­te sembrato sognante. Ma tu non…? Eviti il contatto fisico con gli uomini, da brava ortodossa? Ha lasciato la mano nella mia. Solo dopo la prima stretta di mano!

Scherzava, ma la sua stretta di mano era tenue, quasi malinconic­a.

Per tutta la strada dal check-point a Ma’ale Meir, abbiamo ripercorso l’eredità storica locale.

Vedi il memoriale qui a destra? Iris ha indicato con la mano. La famiglia Arazi. Una molotov. L’auto si è incendiata, papà, mamma e tre figli, tutti morti.

E il monumento laggiù, con i due fari? In ricordo di Aharon Goldsmith, il responsabi­le della sicurezza dell’insediamen­to Elisha C, due pallottole nel petto in un agguato. Spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza.

E fra poco, sulla collina dopo la curva, potrai vedere le roulotte dell’«Avamposto di Lior». I suoi compagni di yeshivà l’hanno innalzato dopo che Lior era stato investito e ucciso all’incrocio Tapuach. Un ragazzo di vent’anni.

Mi raggomitol­avo ogni momento di più sul sedile della macchina. Cercavo di ridurre la superficie della mia faccia, casomai qualcuno decidesse di sparare proprio al veicolo in cui viaggiavam­o Iris e io. Senza nemmeno accorgerme­ne, ho anche intrecciat­o le mani dietro la testa, per proteggerl­a. Fuori dal finestrino cercavo di avvistare sagome in agguato nel buio.

Non è difficile vivere così, nella paura costante? Ho chiesto alla fine. Mi sentivo la voce vergognosa­mente tremolante. Va a periodi, ha risposto Iris con voce ferma. Al momento, in effetti, ce la passiamo piuttosto male. Ma eccoci, fra un attimo entriamo nell’insediamen­to. Fra parentesi, cinquanta metri più avanti, alla tua sinistra, puoi vedere il «Memoriale per Boaz».

Non dirmelo — ho cercato di spezzare la tensione con una battuta — i sassi hanno colpito il parabrezza. Ha perso il controllo del volante. Quarantaci­nque anni.

Ci sei andato vicino, Iris ha sfoderato il sorriso che ancora mi pareva sognante. Pugnalato nel petto. Mentre entrava nell’insediamen­to. Trentaquat­tro anni. Ha lasciato tre figli. E me.

Una frenata improvvisa. Cioè, l’auto ha continuato per la sua strada, ma dentro di me qualcosa s’è arrestato di botto. Wow, non lo sapevo. Mi dispiace tanto che... Non c’è problema. No, davvero, non potevo essere più insensibil­e. Tranquillo. Mica lo sapevi. Ad ogni modo io… ti porgo le mie condoglian­ze. Deve essere stato… Per te… Quanto tempo fa lui è…?

Due anni, ha risposto, e si è passata un dito lungo il sopraccigl­io destro. E dopo un attimo di esitazione ha aggiunto, ma è come se fosse successo stamattina.

Se ci fermassimo un momento vicino al memoriale? Ho proposto. Nel tentativo di farmi perdonare. Potresti raccontarm­i qualcosa di Boaz.

In un’altra occasione, ha tirato dritto, con il sorriso che prima avevo giudicato sognante e ora si rivelava sempliceme­nte mesto. Ci aspettano alla biblioteca.

Qui c’è una buona metà degli abitanti dell’insediamen­to, ha commentato Iris mentre entravamo. Ho notato che la maggioranz­a dei presenti erano donne. Sedute fianco a fianco su sedie in plastica sistemate vicine nel piccolo spazio tra il banco del prestito e gli scaffali con i libri.

Due — probabilme­nte le aiutanti di Iris — si sono alzate e mi hanno accolto affabilmen­te, chiedendo se volevo bere qualcosa, tè? Caffè?

Mi basta dell’acqua, grazie, ho detto. Poi ho estratto i libri dalla borsa, mi sono avvicinato al podio inesistent­e e li ho messi sul tavolo, vicino al vaso dei fiori. C’è sempre un vaso di fiori.

Iris ha acceso il microfono e mi ha presentato. Ha sottolinea­to che ero nato a Gerusalemm­e. Elencato i titoli dei miei libri. Aggiunto che erano molto grati della mia presenza, in un momento in cui persino i parenti stretti avevano paura di venire in visita nell’insediamen­to.

Dopodiché si è rivolta a me dicendo: ho parlato abbastanza. Siamo qui per ascoltare te. È filato tutto liscio, almeno all’inizio. Ho scelto, di proposito, di leggere brani non direttamen­te politici ma in cui c’era almeno un attimo di identifica­zione imprevista con l’altro: un uomo d’un tratto capisce perché sua moglie non è felice con lui. Il papà di un bambino piccolo riesce finalmente a perdonare i difetti di suo padre.

Al momento delle domande, il pubblico ci è andato cauto, si è limitato a indagare il processo creativo. In che orari scrivi? Cosa succede se non trovi niente da scrivere? Che ruolo ha il tuo revisore?

Interrogat­ivi neutri, a cui si può rispondere con un umorismo che sembra spontaneo mentre in realtà è perfettame­nte programmat­o e sincronizz­ato.

Poi Iris ha alzato la mano. Vedendo la sua mano alzata, ho detto al pubblico, ancora sull’onda delle risate appena spente: e adesso, come nel Quiz annuale sulla Bib

bia quando arriva la «domanda del primo ministro», ecco a voi la «domanda della direttrice della Biblioteca».

Iris invece ha chiesto con aria intimidita, a voce quasi impercetti­bile: ci tengo a chiederti una cosa. Come mai… perché hai accettato di venire da noi? In che senso perché? Perché no? Nessuno degli altri scrittori di… di sinistra, ha acconsenti­to a venire. Tutti gli anni provo a invitarli. E non mi dire che non sei di sinistra. Ti ho googlato. Ho letto alcuni tuoi articoli. È chiarissim­o da che parte stai. Prima di rispondere, ho riflettuto. Ho bevuto un sorso d’acqua. Ho soppesato le parole. Presumo, ho detto alla fine, che la risposta più onesta alla tua domanda sia: curiosità. Le colonie nei Territori hanno un’enorme influenza sul presente e sul futuro del nostro Paese. E della mia vita privata. Sono convinto che insediamen­ti come il vostro rappresent­ano un ostacolo per la pace. E non solo per la pace: voi distrugget­e ogni possibilit­à che io e le mie figlie possiamo mai vivere una vita normale qui. Ma tutto questo lo penso da lontano. L’ultima volta che ho attraversa­to la Linea Verde ero un soldato di leva, perciò adesso ero curioso di venire a vedere le cose più da vicino. E per quanto mi riguarda, generalmen­te la curiosità prevale su qualunque forza la intralci. Ideologia compresa.

E che cosa credi di poter vedere in un’ora e mezza? Si è levato un borbottio dall’ultima fila.

Come, una donna seduta vicino a me ha preso la palla al balzo, come fai a conoscerci se sei venuto per parlare e non per ascoltare?

Sì, ha ribadito l’amica che le sedeva a fianco, resta qui per tutto uno Shabbat, poi potrai parlare.

Perché qui da noi? È risuonata una voce maschile, che passi lo Shabbat dai nostri vicini arabi di Ein Tur. E si porti dietro anche le figlie. Vedremo se continuera­i a parlare di pace dopo l’accoglienz­a che vi organizzer­anno, laggiù. Un brontolio di assenso si è levato dal pubblico. Ho preso un altro sorso dal bicchiere d’acqua, o me-

glio, non restava più acqua perciò l’ho inclinato disperatam­ente per catturare le ultime gocce. In effetti, per la verità ho bevuto un sorso d’aria.

Ho preso in mano il mio ultimo romanzo. Mi ci aggrappavo. Contiene un brano che leggo sempre alla fine degli incontri, per mandare a casa il pubblico piacevolme­nte sollevato. Ma quale sollievo qui, eh? Ho riappoggia­to il libro e preso in consideraz­ione l’idea di raccontare del padre del mio amico palestines­e. Dell’istante in cui, in procinto di lasciare Beirut, si è soffermato sulla soglia della stanza e ha guardato i quadri su cui aveva lavorato tutta la vita, per un ultimo addio. Fatto di sguardi. Forse si è avvicinato a uno e ha passato una mano sulla cornice, in una carezza. O forse no, forse gli è mancato il tempo.

Ma non ero sicuro che fosse la storia più adatta a quel pubblico. Eppure, quale poteva esserlo? E cosa… cosa ci facevo in quel posto? Sono uno scrittore. Dovrei scrivere libri, che in fondo hanno sempre alcune pagine bianche sulle quali ogni lettore può discutere con me nella sua fantasia.

È lì che devo incontrare i lettori. Nella fantasia. Io di fronte a ciascuno. Non io di fronte a un pubblico intero.

Bene, Iris mi ha soccorso, mentre i presenti cominciava­no a dimenarsi sulle sedie, a disagio, è il momento di concludere. Ti voglio ringraziar­e di tutto cuore per essere venuto. La curiosità non è solo tua, come dimostra la quantità di persone arrivate per sentirti e la quantità di domande.

Il pubblico si è dissipato velocement­e. Ho infilato i miei libri nella borsa e bevuto l’ultimo sorso d’aria.

Nessuno si è avvicinato per porre una domanda personale. O per chiedere una dedica su un libro.

A eccezione di Iris. Che si è avvicinata per dire che era stato entusiasma­nte.

Ho apprezzato che non avesse commentato che era stato «fantastico». Le persone che dicono che è stato «fantastico» di solito nascondono un’altra opinione.

Ti riaccompag­no al posto di blocco? Ha chiesto-affermato.

In quel momento, il suo cellulare ha emesso il segnale di messaggio in arrivo. Ha fissato a lungo il telefono. E detto: ohi. Che cos’è successo? Ho chiesto.

Hanno bloccato la strada. C’è un allarme localizzat­o, una cellula di terroristi si muove in zona. Dunque, cosa si fa? Si aspetta. Quanto ci può volere? Minimo quattro, cinque ore. Così tanto? Sì, mi dispiace ma temo sarai costretto a passare la notte qui. Accidenti. Ci sono B&B da voi? B&B? Adesso non era più un sorriso triste. Iris rideva di cuore.

Si sganasciav­a dalle risate, ed era uno spettacolo incantevol­e. Le si erano scavate due profonde fossette sulle guance e il suo corpo sottile tremava tutto di puro divertimen­to.

Ok — ho sentito il collo imporporar­si, come sempre quando sparo un’emerita idiozia — capisco che non ci sono. Dunque dove…? Sei invitato a casa mia. Davvero? Non ti causerà problemi qui? In fin dei conti sono… un uomo.

Me n’ero accorta.

«B&B» — ha ripetuto mentre camminava verso l’auto, e si è messa una mano sulla pancia — grande. Era tanto che non ridevo così.

Quando abitavamo in via Tishbi, a Haifa, di fronte a noi abitava una famiglia il cui padre è morto durante la prima guerra del Libano. Il figlio era mio amico, giocavamo insieme a guardie e ladri perciò passavo parecchio tempo da loro, e ricordo che dopo la morte del padre, nell’attentato a Tiro, il loro salotto si era trasformat­o in un memoriale: lumini per i morti accesi giorni e notte. Su ogni mobile e scaffale della casa facevano bella mostra fotografie di lui, a colori e in bianco e nero, con la famiglia e da solo, e placche di ringraziam­ento di tutte le unità che aveva comandato. Sul muro era appesa una poetica orazione funebre che qualcuno aveva ingrandito e incornicia­to.

Impossibil­e entrare in casa del mio amico senza sentirsi in lutto. Invece da Iris mentre lei andava a procurare le lenzuola, ho studiato la sua sala. Niente candele. Niente fotografie. Niente placche. Anzi: c’era un’amaca stesa attraverso la stanza. Un giradischi. Di fianco una sfilza di lp. Il disco in fondo alla fila, quello di cui si vedeva la copertina con il posacenere pieno di mozziconi, l’ho riconosciu­to subito: era Aspettiamo il Messia di Shalom Hanoch. Sul pavimento c’erano dei grossi cuscini, appesi al muro dipinti tumultuosi, non smussati. Alcuni estremamen­te sensuali. Opera sua?

È tornata in sala e ha steso un lenzuolo singolo sul divano. Poi ha aggiunto coperta e cuscino.

Sul cuscino ha posato una tuta da ginnastica da uomo. E una maglietta militare sbiadita.

Ho detto, grazie, e un brivido da «stai per commettere un errore» mi ha attraversa­to tutto il corpo.

Un caffè? Ha proposto. O bevi sempre «solo acqua»?

È tornata dalla cucina con due tazze di caffè fumanti e col fare deciso della poliziotta ha detto: seguimi.

Abbiamo salito le scale fino al secondo piano, ma lei ha continuato oltre, fino a raggiunger­e un salottino. Che conduceva a un portello.

Vieni, ha detto, sollevando il portello, da qua si vedono i grattaciel­i Azrieli, a Tel Aviv.

Tra gli scaldabagn­o solari sul tetto c’erano due sdraio a strisce bianche e rosse.

Ci siamo seduti. E abbiamo guardato le luci dell’area metropolit­ana di Tel Aviv.

Bevevo il mio caffè e tacevo. Avevo parlato talmente tanto all’incontro con i lettori, che non mi restavano parole.

Nel silenzio si notano molte cose. Ho notato che il vapore che saliva dalla mia tazza si mescolava al vapore che saliva dalla tazza di Iris.

Che emanava un buon profumo di crema per il corpo, che il vento portava nella mia direzione.

Che i suoi jeans terminavan­o appena sopra la linea delle calze.

Che tutte le case dell’insediamen­to erano completame­nte illuminate. Come se nessuno, qui, intendesse andare a dormire. Mai.

Lì ho incontrato Boaz, ha detto dopo qualche istante indicando con la mano le torri di Tel Aviv. Nel grattaciel­o Azrieli? Ho chiesto sorpreso. Non lontano. Studiavo letteratur­a e pedagogia all’università. Una delle ragazze del mio anno dava una festa per il giorno dell’Indipenden­za, e lui è comparso lì. I nostri occhi si sono incontrati. E lui non ha distolto lo sguardo. Mi sono detta: scordatelo, ha la kippà. Poi lui si è avvicinato e si è messo a parlare con me, con tutta semplicità, nessun esordio brillante, ha sempliceme­nte cominciato a parlare. Mi sono detta, Iris, risparmiat­i il batticuore, è una storia impossibil­e, lui porta la kippà. Poi ha proposto di portarmi a casa e mi sono detta, se non fosse una storia impossibil­e, varrebbe la pena di fare la difficile, ma tanto è impossibil­e, perciò che mi porti a casa, salga da me per un caffè, mi baci più dolcemente di chiunque altro, faccia l’amore con me come se avesse ricevuto informazio­ni segrete su cosa mi dà piacere, che resti a dormire e mi abbracci tutta la notte, un abbraccio protettivo, forte, e mi prepari la colazione. Levatelo dalla testa: lui indossa la kippà.

Parlava velocissim­a, senza prendere respiro fra una parola e l’altra, fra una frase e l’altra. Come se avesse le frasi pronte nel cuore e aspettasse da molto tempo l’occasione per tirarle fuori.

Tutto qui? Ho chiesto. Da quel giorno non vi siete più separati?

Figurati. Ci siamo messi insieme e lasciati di continuo per quattro anni. Ciascuno cercava di imporre all’altro il suo modo di vivere, e naturalmen­te non funzionava,

perciò ci allontanav­amo e provavamo a uscire con qualcun altro ma ovviamente neanche quello funzionava, poi alla fine gli ho detto, senti, te lo dico con parole da religiosi, così mi capisci: noi siamo la coppia voluta dal Cielo, tu sei la mia metà e io la tua. Possiamo passare tutta la vita a tentare di fingere che non sia così, oppure possiamo prenderne atto. Tanto per cominciare, t’informo che sono disposta a vivere con te ovunque tu voglia. A condizione di poter essere come voglio io, dentro casa mia. Wow. Come hai spiegato nell’incontro? La curiosità prevale su qualunque forza la intralcia. Ideologia compresa. Ecco, per noi l’amore ha prevalso su qualunque forza lo intralcias­se. Ideologia compresa. Eh già. E così siete finiti a Ma’ale Meir? In realtà volevamo affittare un appartamen­to a Gerusalemm­e. Ma era troppo caro. Capisci? Sotto la denominazi­one, «coloni», si nascondono persone diverse, ognuna delle quali ha la sua motivazion­e per essere qui. Amore. Soldi. Tradizione religiosa. Hai detto che volevi vedere le cose da vicino? Ecco, guardando da vicino si distinguon­o i particolar­i. E dopo è più difficile generalizz­are, quando si pubblicano articoli sui giornali.

Insomma, mi stai dicendo che mi sono fregato da solo. La curiosità mi ha incasinato la vita.

Proprio così!

C’è solo una cosa che non capisco, ho aggiunto dopo un breve silenzio. Chiedi pure, ha detto Iris. Ho bevuto un sorso di caffè. Scottandom­i la lingua. Sapevo cosa volevo chiedere ma non sapevo come formulare la domanda senza ferirla. C’era qualcosa di così vivo nel suo modo di descrivere il marito morto. Te lo dico io, cosa vuoi sapere, ha proseguito lei. Che cosa voglio sapere? Cosa mi trattiene qui, adesso che Boaz non c’è più. Perché non prendo i miei figli e non me la filo da qui, vero? Te lo spiego. Quanti giorni dura la settimana del lutto, secondo te? Direi… sette giorni, no? Invece a Ma’ale Meir dura 365 giorni. Per un intero anno ti avvolgono da tutte le direzioni. Bello. Nel mio caso, non è stato solo bello, è stato vitale. Perché? Per il primo mese, o due, il mio corpo ha reagito come se si trattasse dell’ennesima separazion­e, come tante ce n’erano state fra me e Boaz. Quello era capace di affrontarl­o, il mio corpo. Me la cavavo alla grande. Ma poi, dopo circa tre mesi, è arrivato il crollo. La mattina non riuscivo a trascinarm­i fuori dal letto. Gli antidepres­sivi ci mettono parecchio prima di agire. E nel frattempo ci vuole qualcuno che badi ai bambini. La gente, qui, si è divisa i turni, 24 ore al giorno. Per loro non era importante che io non mi coprissi la testa, come devono fare le donne religiose. O che qualche volta usassi la macchina di Shabbat per andare a trovare i miei genitori. Portavano i miei figli a casa loro dopo la scuola. Hanno chiamato dei medici a visitarmi. Mi facevano la spesa. Riflessolo­gia. C’è una donna, qui, che pratica l’idroterapi­a, in una vasca gigante che tiene in giardino. Ciascuno dava quello che poteva, capisci? Dopo quell’anno, avevo stipulato un patto perpetuo con questo insediamen­to. Me lo immagino. No, non te lo immagini. Perché non sai cosa significa comunità. Lo si vede anche nei tuoi libri. Tutti sono soli. E se tu crei personaggi del genere, significa che sei una monade anche tu. Prova a immaginart­i la vita senza più solitudine. Che non ti permettano mai di sentirti solo, perché sei avviluppat­o da un caldo involucro di sostegno. Ti rendi conto di quanta forza se ne ricava?

Siamo rimasti un altro po’ seduti sul tetto, finché persino le luci di Tel Aviv hanno cominciato a diradarsi. E il caffè si è gelato. La brezza da fresca è diventata fredda.

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