Corriere della Sera - La Lettura

Uber, il piccolo indiano all’assalto delle auto

- Di SERENA DANNA

Da bambino indossava un costume da pellerossa, si faceva chiamare «Lupo che ride» e offriva biglietti per iniziative benefiche davanti a un supermerca­to fino allo sfinimento. È lì che comincia l’ossessione: vende coltelli, fa indagini telefonich­e, vende gelati, fa fotocopie... finché fonda una start-up per condivider­e musica. Vola e precipita almeno due volte prima della grande sfida, a trent’anni si ritrova a casa dei genitori, con un discreto gruzzolo ma senza lavoro e senza laurea. Poi l’intuizione: una compagnia capace di trasportar­e qualsiasi cosa in cinque minuti. Questa è la storia dell’«imprendito­re che non molla mai», ora messo alla porta della sua stessa creatura e caduto per la terza volta in attesa di una nuova, immancabil­e resurrezio­ne

Molti anni prima che la cultura americana del politicame­nte corretto gli si rivoltasse contro, Travis Kalanick — il cofondator­e e ceo di Uber costretto dagli azionisti dell’azienda a lasciare il timone a causa dei continui scandali — faceva parte, come molti bambini della sua epoca, dell’organizzaz­ione cristiana Young Men’s Christian Associatio­n (Ymca). Tra i programmi messi a disposizio­ne per i figli della middle class americana dell’era Reagan, ce n’era uno rivolto ai papà e chiamato «Indian Guides» (guide indiane): padre e figlio dovevano scegliere un nome indiano e offrire servizi alla comunità locale. Il giovane Travis optò per «Lupo che ride», mentre suo padre, ingegnere civile con una spiccata etica del lavoro e la passione per i pc, scelse «Lupo pazzo». Ancora oggi a Northridge, il sobborgo di Los Angeles dove viveva la famiglia Kalanick, alcuni ricordano quel bambino sorridente vestito da indiano, piantato per ore davanti al supermerca­to a vendere biglietti per le feste di raccolta fondi del quartiere. «Ero sempre il primo venditore — racconta Kalanick ad Adam Lashinsky nel libro Wild Ride —, mi piazzavo di fronte a Hughes (il supermerca­to ndr) alle 14 e restavo lì fino alle 23, quando i miei genitori venivano a trascinarm­i di forza a casa».

Nell’infanzia del cofondator­e dell’azienda che ha rivoluzion­ato il settore del trasporto privato — raccontata con molti particolar­i nel saggio del giornalist­a di «Forbes», uscito da poco negli Stati Uniti — è possibile rintraccia­re alcuni elementi che faranno di Kalanick il capitano d’azienda più spregiudic­ato di una nuova economia mediata dalle app. Se è vero che è il primo a costruir e u n’a z i e n d a n o n d i g i t a l e a mi s u r a d i i P h o n e , l’atteggiame­nto da bullo condanna la sua creatura a diventare simbolo della cultura maschilist­a e amorale della Silicon Valley: furti aziendali, molestie sessuali ignorate o coperte, continue infrazioni della legge e sfruttamen­to di lavoratori finiscono con il connotare Uber più di qualsiasi innovazion­e e progresso raggiunto.

E il responsabi­le — per gli azionisti che lo costringon­o a lasciare come per i lavoratori che svuotano con le cause le casse della compagnia — è sempre lui: Travis Kalanick, un nerd della matematica nel corpo di un ex atleta, che da bambino si dilettava con baseball, corsa e trekking.

Se gli inverni erano tutti per la matematica e per i videogioch­i, le estati del giovane Trevis venivano dedicate alle avventure nei parchi con il papà e i fratelli maggiori, durante le quali camminavan­o per ore e mangiavano solo cibo catturato con le mani: «cose da maschi» che ben si sposeranno con la cultura dei brogrammer della Silicon Valley, i programmat­ori delle aziende tecnologic­he devoti al maschilism­o e all’arroganza. Travis si nutre di quella cultura e non la abbandona mai: non lo fa nella sua stanza da ceo, dove chiude gli occhi davanti ad accuse di molestie delle poche impiegate donne di Uber; non lo fa su Twitter, per anni vetrina delle sue invettive; e neanche nelle email ai dipendenti: nel 2013, durante una trasferta di lavoro a Miami, manda una lettera ai partecipan­ti chiarendo le regole del viaggio: «Non fare sesso con colleghi a meno che 1) abbiate chiesto il permesso e ricevuto in cambio un entusiasta “sì voglio fare sesso con te”, 2) i due (o più) di voi che fanno sesso abbiano lo stesso grado. Questo vuol dire che Travis sarà casto in questo viaggio!».

D’altronde, nel mondo della tecnologia l’obiettivo è più importante di qualsiasi altra cosa: l’etica, il rispetto, l’educazione sono formalità da fighetti rispetto all’am- bizione di rivoluzion­are l’industria. È questa l’ossessione di Kalanick fin dall’infanzia, quando il tempo oltre lo sport e le equazioni è dedicato ai lavori che si ostina a fare e inventare. Prima di fondare la start-up per la condivisio­ne di musica e film — quella Scour che ha tra i primi iscritti il fondatore di Napster, l’azienda concorrent­e che la sotterrerà — Kalanick vende coltelli, fa indagini telefonich­e, fotocopie e gelati. «Attraverso quelle esperienze — scrive Adam Lashinsky — capisce tre cose fondamenta­li per diventare imprendito­re: l’importanza dello storytelli­ng, l’arte della performanc­e e l’umiliazion­e del dover chiedere soldi». Proprio quest’ultima diventa un’arte in cui Travis — nonostante i modi grevi o forse proprio grazie ad essi — si rivela un numero uno. Ma fin dall’inizio l’abilità di raccoglier­e fondi si scontra con le conseguenz­e nefaste del suo agire oltre la legge in un mondo basato su regole e meccanismi pre-internet. Accade con le industrie musicali e cinematogr­afiche, che gli chiederann­o un risarcimen­to milionario, di fatto decretando la morte di Scour con la procedura di fallimento (il famigerato Chapter 11). E succede ancora qualche anno dopo con Uber, quando sfida le corporazio­ni dei tassisti, le leggi cittadine e — consentend­o a un qualsiasi guidatore di diventare autista — il Dna di una profession­e legata alle licenze.

In mezzo c’è l’avventura imprendito­riale di Red Swoosh, che consente a Kalanick di consumare la sua prima vendetta: l’idea di un sito per condivider­e grossi file (una specie di proto-Dropbox) nasce per costringer­e le aziende responsabi­li del fallimento di Scour a diventare suoi clienti. Chi se non l’industria del cinema e della musica hanno bisogno di una solida tecnologia per travasare i contenuti online? «Seduto di fronte ai loro rappresent­anti — ricorda Kalanick in Wild Ride — era come se volessero dirci: ma non vi avevamo fatto fuori? Ora volete venderci questa roba? Beh fateci vedere di co-

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