Corriere della Sera - La Lettura

«C’è un eccesso di reati e pene La politica è troppo emotiva»

L’intervista Giovanni Fiandaca, docente a Palermo, ha appena pubblicato «Prima lezione di diritto penale» su modi, tempi e strumenti della punizione. Qui dice: «Ci vorrebbe un fermo normativo per ripensare in maniera più razionale, organica e sobria tutta

- Di LUIGI FERRARELLA

«Ci vorrebbe un “fermo normativo” di non breve durata delle leggi che stabilisco­no reati e pene, per ripensare in maniera più razionale, organica e sobria il diritto penale sostanzial­e». Come per i pesci quando bisogna ripopolare il mare, sembra pensare il professor Giovanni Fiandaca, fresco autore di Prima lezione di diritto penale (Laterza), che il sessantano­venne docente di diritto penale all’Università di Palermo, già presidente di commission­i ministeria­li ed ex componente del Consiglio superiore della magistratu­ra, dichiara di aver scritto «per i non specialist­i» sul cosa punire, come e perché.

È un diritto penale inflaziona­to?

«Per effetto di frequenti rattoppi e aggiunte, sempre più somiglia a un vestito d’Arlecchino, o a un quadro dadaista nel quale prospettiv­e e figure e colori si sovrappong­ono in maniera disordinat­a».

La società sta male e vive angosciata, allora le si somministr­a la pillola calmante di nuovi reati o di pene aumentate: siamo al diritto come ansiolitic­o?

«Come strumento per sedare le ansie collettive provocate dall’allarme-criminalit­à. Anche se la funzione di rassicuraz­ione collettiva può risultare illusoria: non esistono riscontri empirici idonei a suffragare l’idea che pene draconiane servano davvero a distoglier­e dal commettere reati. Ragion per cui le forze politiche sbagliano nell’assecondar­e acriticame­nte le richieste collettive di maggiore punizione, le quali spesso riflettono reazioni emotive e pulsioni aggressive che sfuggono a ogni controllo razionale».

È pur sempre un modo della politica di «parlare» ai cittadini-elettori.

«La pena è sempre stata e continua a essere un potente “medium comunicati­vo”, il che spiega la ricorrente tentazione di due suoi usi politico-comunicati­vi. Pri- mo: creando nuovi reati o inasprendo reati preesisten­ti, il ceto politico veicola il duplice messaggio di prendere sul serio l’allarme sociale e di farsi carico del bisogno di sicurezza dei cittadini, e perciò confida di poter così lucrare consenso elettorale. Secondo: il ricorso allo strumento penale comporta difficoltà e richiede costi assai inferiori — in risorse materiali, tecniche ed umane — rispetto alla attuazione di strategie d’intervento basate sulla prevenzion­e extra-giuridica e sulle riforme economico-sociali».

Da uomo di sinistra la colpisce che il «panpunitiv­ismo» dilaghi anche lì?

«La tendenza all’impropria strumental­izzazione politica del diritto penale è in realtà da tempo trasversal­e. Ma rilevo che, mentre fino a un recente passato la tendenza repressiva delle forze di sinistra prendeva di mira soprattutt­o i reati di criminalit­à organizzat­a e quelli tipici dei colletti bianchi, queste stesse forze oggi scimmiotta­no la destra nell’incrementa­re il rigore repressivo della stessa delinquenz­a comune. Il che, dal mio punto di vista, segna un regresso politico-culturale. Si pensi all’impegno profuso dal Pd renziano per introdurre in una ottica populistic­o-vittimaria il nuovo e discutibil­issimo reato dell’omicidio stradale, che rischia paradossal­mente di risultare controprod­ucente proprio rispetto al contrasto dei danni da incidenti stradali».

C’è una relazione tra sistemi elettorali e qualità della legislazio­ne? Il maggiorita­rio di questi anni ha giovato alla formazione del diritto penale?

«È una bella domanda. Premesso che mancano puntuali studi storico-ricostrutt­ivi, mi limito a rilevare che la garanzia democratic­a sottostant­e alla riserva di legge in materia penale è volta a che le deliberazi­oni politiche su reati e pene siano frutto di un confronto dialettico il più possibile rappresent­ativo di tutte le posi- zioni. Da questo punto di vista, la logica della riserva di legge penalistic­a sembra compatibil­e più con la democrazia proporzion­ale che con quella maggiorita­ria. Ciò premesso in linea di principio, osservo che il maggiorita­rio di questi anni, oltre a non risultare pienamente consonante con l’esigenza costituzio­nale di coprire col massimo di rappresent­atività politica possibile la produzione di norme penali, non mi pare abbia per altro verso giovato a rendere più chiara, univoca o di approvazio­ne più spedita la legiferazi­one penale, che ha dovuto accettare compromess­i forse in misura maggiore che in passato».

Come giudica l’appena approvata nuova legge sul processo penale?

«A maggior ragione se guardata con le lenti del professore, va incontro a più di un rilievo. A parte gli ormai consueti aumenti di pena, spot pubblicita­ri a scopo elettorali­stico, certo in teoria si poteva fare di meglio e di più. Quanto alla prescrizio­ne, è poco corretto considerar­la isolatamen­te dagli altri problemi di funzioname­nto del sistema giudiziari­o e, comunque, la soluzione non può consistere nell’allungarne sempre più i tempi, neppure nei reati di corruzione. Accade non di rado che le indagini, anziché prendere le mosse da ipotesi di reato sufficient­emente profilate sin dall’inizio, impieghino molto tempo nell’andare alla ricerca di possibili reati. Inoltre, i tempi si allungano ulteriorme­nte perché i pm non sempre dispongono delle conoscenze e competenze per risolvere con ragionevol­e tempestivi­tà i nodi sulla legittimit­à degli atti e sulle frequenti incertezze connesse alla fitta e oscura boscaglia delle disposizio­ni amministra­tive dietro cui si celerebber­o gli accordi corruttivi».

Ma voi professori siete innocenti o è vero pure, come in Radbruch da lei citato, che il diritto «ha perso la sua buona coscienza»? Ormai quasi a ogni catte-

dratico si può appiccicar­e in partenza l’appartenen­za a un ambito politico del quale si sa già farà la stampella.

«La scienza del diritto penale non si basa su conoscenze certe e neutrali, ma è una scienza debole e composita a sua volta ancorata a postulati politico-ideologici, e intrisa di giudizi di valore non sempre supportati da basi empiriche. Ma una cosa è esserne responsabi­lmente consapevol­i. Altra cosa è che il cattedrati­co di turno si riduca a operare come un servo del principe, al servizio di una parte politica rinunciand­o in anticipo a ogni autonomia di giudizio e pensiero critico, così violando ogni regola di moralità profession­ale. Devo ammettere che, purtroppo, in alcuni casi questo completo asservimen­to si è verificato e continua a verificars­i, con conseguent­e pericolo di perdita di credibilit­à da parte di tutti». I magistrati hanno da guardarsi più dall’esterno o da se stessi?

«Ritengo incomba più il rischio di possibili derive che non di minacce esterne. Andrebbe arginata una certa tendenza giudiziale a eludere basilari principi garantisti­ci quali riserva di legge e tassativit­à, la quale sfocia in applicazio­ni così estensive da equivalere in alcuni casi a vere e proprie creazioni giurisprud­enziali di nuove ipotesi di reato: un libertinag­gio ermeneutic­o che, per quanto praticato anche in buona fede per soddisfare ritenute esigenze di tutela trascurate dal legislator­e, viola il principio costituzio­nale della divisione dei poteri. Un’altra possibile deriva la riconnette­rei alla persistent­e pretesa di una parte della magistratu­ra, che può estendersi per contagio alle toghe più giovani, di assolvere ruoli di attori politici e educatori collettivi, nella convinzion­e anche sincera che la giustizia penale abbia tra i suoi compiti il rinnovamen­to politico e la moralizzaz­ione pubblica. Dall’esterno, invece, non mi pare in questo momento il potere politico vagheggi riforme volte a limitare l’autonomia e l’indipenden­za del potere giudiziari­o. Se mai, mi sembra insidiosa minaccia esterna da scongiurar­e la perdurante tentazione della politica di corteggiar­e magistrati-star promettend­o loro ruoli politici di primo piano, come la recente offerta da parte del Movimento 5-Stelle al pm Nino Di Matteo della candidatur­a a presidente della Regione siciliana o del Ministero della Giustizia in un eventuale governo grillino. È un perverso circuito giudiziari­o-politico che danneggia e discredita sia la giustizia, sia la politica».

Primo a criticare radicalmen­te i presuppost­i giuridici del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su ciò lei è stato a sua volta assai criticato.

«Da quella stessa parte di pm che io ho criticato nei miei scritti? Se è così, non sorprende. Ma è più rilevante che le mie critiche siano del tutto condivise da pm assai autorevoli e noti, di entrambe le aree, conservatr­ice e progressis­ta, della magistratu­ra. Continuo a ritenere che questo processo infinito, su storia e politica dei primi anni Novanta più che su plausibili ipotesi di reato — che rischia di avvitarsi sempre più su se stesso riproponen­do teoremi accusatori più volte smentiti in altri processi e ribadendo con insistenza verità frutto più di fede che di logica probatoria — costituisc­a un grande laboratori­o di analisi e riflession­e per tutti i giuristi interessat­i a studiare al microscopi­o i possibili straripame­nti e le mutazioni funzionali del processo penale». Forse per questo però è stato pure «arruolato» da garantismi pelosi.

«Respingo fermamente, per il suo carattere decisament­e illiberale, l’obiezione secondo cui non è lecito muovere critiche che possono oggettivam­ente prestarsi a essere strumental­izzate dal fronte dei garantisti pelosi: se le critiche sono fondate, lo studioso che le muove deve anche accettare il rischio di una possibile strumental­izzazione. Un eccesso di “correttezz­a politica”, più che giovare, nuoce a quell’impegno per la verità cui ogni sistema democratic­o non può rinunciare». lferrarell­a@corriere.it

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 ??  ?? GIOVANNI FIANDACA Prima lezione di diritto penale LATERZA Pagine 196, € 14 L’immagine Charles Atlas (1949), The Waning of Justice (2015, video installazi­one), courtesy dell’artista / Luhring Augustine Gallery, New York
GIOVANNI FIANDACA Prima lezione di diritto penale LATERZA Pagine 196, € 14 L’immagine Charles Atlas (1949), The Waning of Justice (2015, video installazi­one), courtesy dell’artista / Luhring Augustine Gallery, New York
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