Corriere della Sera - La Lettura
La frontiera è a Nevada sull’altopiano di Asiago
Epica nostrana Nel nuovo lavoro di Matteo Righetto ambientato a fine Ottocento tra i coltivatori di tabacco la storia di un viaggio padre-figlia (con mulo). I riferimenti letterari? Mario Rigoni Stern e Cormac McCarthy
L’anima della frontiera di Matteo Righetto è un romanzo a più strati: sia come riferimenti letterari, che quanto a sua personale storia narrativa. Riferimenti letterari credo abbastanza precisi, in questa storia di fine Ottocento, che prende le mosse da Nevada, una «manciata di uomini e donne che vivevano in casupole inerpicate sui versanti vertiginosi della riva destra» del Brenta, a oriente dell’altopiano di Asiago, dove il tabacco «veniva buono come nessun altro in circolazione», coltivato in piccoli terrazzamenti detti «masiere». Ed è qui che vive la famiglia De Boer: il non alto e corpulento, ma «dotato di una forza sorprendente e inesauribile» Augusto; la religiosissima e sensibile moglie Agnese pronta a incantarsi «ogni giorno davanti alla bellezza delle piccole cose della natura»; i figli Jole e Antonia e il piccolo intelligentissimo e sognatore Sergio.
Una famiglia nella quale «si lavorava tanto per avere poco», che cerca di sopravvivere allo schiavistico sfruttamento della Regia dei Tabacchi ricorrendo al contrabbando, anche solo per poter vivere «meno poveramente». E lo fa sottraendo piccoli quantitativi del pregiatissimo tabacco No- strano del Brenta, per poi contrabbandarlo in Austria, nella valle di Primiero, in cambio di rame e argento, a sua volta sottratto dai minatori ingurgitandolo, per poi far «colare e poi solidificare tutti i granelli, i frammenti, la polvere e le scagliette di argento e rame restituite dalle loro feci» in «un piccolo forno fusore clandestino in ghisa». Metalli che Augusto avrebbe poi ceduto in pianura «in cambio di viveri e di bestiame».
Un viaggio che il trentasettenne Augusto inizia a intraprendere nel 1889, e così ogni anno, sinché il 29 settembre 1893 il suo «istinto selvatico» gli detta una sorta di «sfida per amore della sua famiglia»: portare con sé il mulo Ettore e la figlia quindicenne Jole, in un viaggio epico, di più giorni, tra pericoli naturali (animali, luoghi) e umani (guardie di frontiera, finanzieri, banditi). Un racconto, il viaggio del padre con Jole, lasciato volutamente in sospeso per farlo ripercorrere tre anni più tardi, a partire dal medesimo luogo, da una Jole che il 29 ottobre 1896 ha deciso di prendere il posto del padre scomparso tre anni prima, partito senza più fare ritorno, spinta dalla necessità di poter far sopravvivere la famiglia, dato che «quella primavera c’era stata una carestia e le cose si erano messe davvero male per i De Boer».
Semplici accenni, questi, per meglio spiegare i riferimenti letterari che stanno sullo sfondo. Che, per quanto riguarda povertà e miseria su quelle montagne (ed è l’accento proprio della prima parte), ma pure certi risvolti della vicenda di Augusto, dato per morto o infamato d’aver stuprato e ucciso una bambina, mi richiamano il Rigoni Stern del suo capolavoro di narratore, La storia di Tönle. Quanto al viaggio a sua volta epico di Jole col cavallo Sansone (che occupa la parte seconda), anche per il modo con cui quel cavallo, destinato ad essere abbattuto, è tornato a vivere curato da lei, il pensiero va al Cormac McCarthy del viaggio del ragazzo Billy e della Lupa in
Oltre il confine. Con risvolti, poi nella terza parte diversamente avventurosa, quando nel ritorno Jole deve combattere per la sua stessa vita contro uomini che cercano o vendetta o stupro, traendo forza dal pensiero delle tragiche conseguenze sulla sua famiglia dalla sua morte, entra in gioco la stessa storia narrativa di Righetto, per via di risvolti richiamanti vicende avventurose da «western» nostrano dei suoi esordi con
Savana Padana e Bacchiglione blues, ora però trasferite dalla pianura tra il Brenta e il Bacchiglione alla montagna dei suoi successivi romanzi. I quali entrano in quest’ultima prova a livello soprattutto tematico. Perché nell’Anima della frontiera torna il tema del viaggio di genitore-figlio in una pericolosa spedizione in montagna già della Pelle dell’orso: con quei risvolti da romanzo di formazione qui sottolineati dalla stessa Jole con considerazioni sulla sua duplice crescita «anzitempo»: di svezzamento col padre, che pure le aveva lasciato ancora delle paure; e della scoperta del male nella sua personalissima avventura, coincisa anche con la soluzione del mistero della scomparsa paterna. Cui si aggiunge l’attenzione ai risvolti dei sentimenti e dei rapporti interni familiari propria dei due ultimi suoi romanzi: Apri gli occhi e
Dove porta la neve. Il tutto però con un ribaltamento: di forte senso della famiglia, rispetto a precedenti situazioni familiari disastrate.
Un romanzo di forte tenuta, pur con qualche concessione coloristica (il sabba della notte di Ognissanti) e romanzesca (il finale salvifico). Affidato a una scrittura differenziata: da prospettiva interiore sia pur in equilibrio con l’epicità delle situazioni nelle due prime parti; più scioltamente narrativa, da noir, nella terza. Che disegna delicate figure: dai De Boer, con quell’Augusto dal «volto scolpito nel porfido», «un uomo di roccia», di risicate parole, che nel corso del viaggio si rivela a Jole «una sorta di spirito ancestrale»; alla dolcissima pastora Maddalena, quasi una ninfa della montagna; così come scolpisce i cattivi: l’imbroglione e traditore De Menech e il mostro Sepp Näckler dal ghigno diabolico (non così però il più andante carbonaio). Su uno sfondo di selvaggia bellezza reso con prosa limpida, che sa ben resistere a innamoramenti da prosa poetica.