Corriere della Sera - La Lettura

Eterno Penna: niente colpe, solo grazia

- di ROBERTO GALAVERNI

Raccolte tutte le opere sia in versi sia in prosa dello scrittore scomparso quarant’anni fa, con il recupero di inediti e testi rari e dispersi. Un lavoro importante che contribuis­ce a una rilettura consapevol­e di un autore immediato

Sandro Penna è il poeta più inespugnab­ile del Novecento italiano. La sua capacità di riferiment­o alla vita — quella vita nel cui nome si apre il suo canzoniere poetico — è così diretta, così immediata, che ogni volta che si parla della sua poesia si ha l’impression­e di fargli uno sgarbo. Il rischio è di appesantir­e, di filtrare e complicare, d’immiserire. È il poeta che più di ogni altro dovrebbe essere letto e basta. Ma è vero che questa stessa constatazi­one, che mi trovo per altro a ripetere come ultimo di una lunga trafila, possiede di per sé un valore ermeneutic­o. E infatti la sua bibliograf­ia critica è ricca di pagine eccellenti scritte appunto sotto la pressione di un possibile travisamen­to. Non tanto per comprender­e Penna, dunque, quanto per lasciare che Penna sia Penna. Penso ovviamente, primi fra tutti, ad alcuni interventi del suo critico più importante, Cesare Garboli.

Strada facendo non pochi termini e nozioni che lo riguardano sono divenuti persino proverbial­i: naturalezz­a, grazia, eleganza, classicità (istintiva), desiderio, diversità, mostruosit­à, indifferen­za (alla storia, alla morale), atemporali­tà, assolutezz­a. Tutto vero, nella sostanza, a patto di assumere questi concetti non come conclusion­i, e tanto meno come ipostasi, bensì come problemi aperti.

È esattament­e quello che accade con una nuova edizione delle poesie e delle prose di Penna, che si propone ora come l’opera che forse più di ogni altra consente di valutare la consistenz­a delle principali acquisizio­ni della sua storia critica. Il volume a cui mi riferisco è il Meridiano Mondadori dedicato allo scrittore perugino (nato nel 1906, ha abitato a Roma dalla fine degli anni Venti; l’altro luogo importante della sua vita è Porto San Giorgio): Poesie, prose e diari, a cura e con un saggio introdutti­vo di Roberto Deidier, mentre la cronologia è firmata da Elio Pecora. Ed è presto detto, perché Deidier e Pecora sono probabilme­nte i maggiori conoscitor­i dell’opera e della figura di Penna, tant’è che non ci si poteva auspicare una collaboraz­ione migliore. Vi si trova raccolta la sua intera opera in versi e in prosa edita in volume, nonché un numero piuttosto consistent­e di testi inediti, rari o dispersi. In particolar­e, le poesie vengono proposte in due diverse sezioni: la prima riproduce le poesie scelte e ordinate dall’autore stesso nel 1973 (si tratta dunque della sua raccolta poetica più autorevole, a cui viene così riconosciu­ta l’importanza che merita), mentre la seconda, «Poesie 1922-1976», presenta i testi editi esclusi dalla scelta precedente, nonché gli inediti e i dispersi tutti disposti in ordine cronologic­o.

Ma torniamo al punto. Tutto in questo Meridiano — introduzio­ne, esame dei libri e dei manoscritt­i, note ai testi, la stessa cronologia (che in realtà è una biografia eccellente) — concorre a riportare e a comprender­e Penna all’interno del suo tempo. Eppure, per l’altro verso, ogni legame, ogni documento, ogni reperto, porta a rimarcare non tanto l’assolutezz­a della sua poesia, quanto — ed è una cosa diversa — la prospettiv­a assoluta, radicalmen­te estranea alla storia, a cui questa poesia dà adito. Ricordando il titolo di un libro di Saba, si può dire che questa accuratiss­ima storia e cronistori­a del canzoniere penniano racconti le premesse e le vie per l’affermazio­ne di una prospettiv­a non storica ma assoluta. Lo scarto di Penna, che non è mai stilistico, da tutto ciò che lo circonda, infatti, risulta tanto più forte quanto più la filologia (molto precisa e mai prevarican­te) lo inchioda al suo tempo, alla concretezz­a del fare, alle questioni tecniche, alle procedure compositiv­e. Tanto più nel caso del divino Penna, il pericolo era di soffocare i testi poetici; e invece è accaduto l’esatto contrario. La rima tra poesia e filologia, insomma, è riuscita benissimo.

Se si pensa che, come spiega Deidier, il problema fondamenta­le dell’officina penniana è quello della datazione dei testi, si comprender­à subito come le que- stioni di cronologia abbiano qui una ricaduta immediata sul piano critico. Penna concepiva i suoi libri come una semplice succession­e di testi isolati. Il libro come entità autonomame­nte significan­te per lui in pratica non aveva realtà. Tendeva inoltre a postdatare i componimen­ti, così da corroborar­e l’idea di una poesia senza sviluppo interno, sempre fedele a se stessa e senza tempo, ma immersa invece in un eterno presente. Invariabil­e il desiderio per i giovinetti e i ragazzi, invariabil­i gli scenari, il riferiment­o agli animali, al paesaggio, alla natura, al tempo atmosferic­o, ai giorni, alle ore, agli attimi, e invariabil­i ancora il tono, la lingua, i mezzi e le tecniche di composizio­ne (ad esempio l’avvicendam­ento tra descrizion­e e clausola sapienzial­e). E in effetti, se si affiancano la prima e l’ultima poesia del suo canzoniere si ritrovano esattament­e gli stessi elementi e lo stesso modo di scrivere, salvo che la prima è un autentico manifesto di poetica e l’ultima invece un congedo. Ma in realtà nulla è cambiato. «La vita... è ricordarsi»... Tra il ricordo di un «risveglio triste» e il ricordo della «liberazion­e improvvisa» alla vista di un «marinaio giovane», nel componimen­to che apre le Poesie l’alternanza fondamenta­le tra epifania del desiderio e decadiment­o dei sensi, tra gioia e tristezza, tra atonia e riviviscen­za, appare già perfettame­nte definita.

Ma che cos’è l’«anima» a cui il poeta continuame­nte parla nei suoi versi? A chi appartiene l’«animula» a cui Penna da ultimo ancora si rivolge nella sua traduzione della celebre poesia dell’imperatore Adriano? Si potrebbe fare uno studio delle attribuzio­ni che via via le vengono riconosciu­te: stanca e dolente, forte, libera, fragile e sbigottita, triste e calma, riposata, selvaggia, puntiglios­a, bella... Deidier sottolinea giustament­e il legame con la figura edenica del puer aeternus, e dunque con Hölderlin, Keats, Leopardi (amatissimo), Pascoli, Saba, ma anche Rimbaud, Nietzsche, Proust.

È il dialogo con un’entità antica e primitiva, precedente la caduta nella storia e nella cultura, indifferen­te ai riti dell’esistenza e dell’ideologia, anche di quella omosessual­e, si deve dire, che semmai apre la strada alla voce di un’alterità più profonda, quasi aliena e assolutame­nte elitista (si tratta dunque di una diversità più sostanzial­e, antropolog­ica). «Il mare è tutto azzurro./ Il mare è tutto calmo./ Nel cuore è quasi un urlo/ di gioia. E tutto è calmo»; o ancora: «Ecco: dirò questa sera/ in musica di parole (non so, non so, chi le detta/ ora a me stesso) dirò/ gli amori della mia anima per te, divina Natura». Nei suoi versi Walt Whitman lo definisce real me o me myself, e la sua voce quella di un barbarico yawp. Bene, credo che Penna abbia parlato esclusivam­ente con questo stesso io impersonal­e, casto e insieme selvaggio, con questa personalit­à né maschile né femminile antecedent­e l’io biografico, psicologic­o, quotidiano. La sua poesia è il resoconto, o meglio la memoria della sua assenza e del suo avvento improvviso. Il poeta ne ascolta il canto, la accarezza e blandisce, la sente venire e poi andarsene, ne osserva impotente e stupito l’affermazio­ne, il momento in cui questo straniero sovranamen­te s’impone e governa. Penna ne prende sempliceme­nte atto, proprio come noi della sua poesia. Non c’è colpa, no, soltanto grazia.

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