Corriere della Sera - La Lettura

Il mio Vesuvio? Il più noioso della storia

- Napoli GIANLUIGI COLIN

Napoli Wade Guyton è uno degli artisti più affermati sulla frontiera della sperimenta­zione digitale. Il Madre ospita una sua personale, con un’opera che sembra prendere le distanze dal capolavoro di Warhol. «Ho lavorato due mesi dentro al museo»

da

«Si amo arrivati », annuncia perentorio W ade Guyton. Ed è davvero così: artista tra i più affermati nella complessa frontiera della sperimenta­zione digitale, Guyton si è letteralme­nte insediato per due mesi al Museo Madre di Napoli con tutta la sua squadra di assistenti, macchinari per la stampa ed enormi rulli di carta. Così, citando una pubblicità del sito de «Il Mattino» che annuncia l’arrivo del McDonald’s in galleria a Napoli (indiretto omaggio a Warhol) Guyton ha stampato, fotografat­o, reinventat­o nuovi spazi e ha costruito una mostra davvero innovativa dopo aver trasformat­o il museo in un’estensione simbolica del suo studio di New York. Un’esperienza a suo modo unica, nata dalla volontà di Andrea Viliani, direttore del Madre: tutto, infatti, è stato realizzato qui, in queste sale, frutto di una residenza in cui Guyton è stato costretto a fare i conti con l’energia surreale dei Quartieri Spagnoli, con lo sguardo più agiato degli abitanti di Posillipo e con i riti pagani della Napoli sotterrane­a delle Fontanelle. Con le molte anime di Napoli.

Lo sguardo di Guyton denuncia tratti di timidezza. Parla con lunghe pause, la voce è profonda. I capelli che gli scendono sulle spalle alimentano un’immagine solenne. Non c’è quindi da stupirsi se durante le sue missioni fotografic­he, lungo i vicoli, impertinen­ti ragazzini gli urlavano: «Ma addò va chist’? Mme pare Gesù Crist’!». E davvero questo artista di Hammond, Indiana, classe 1972, sembra uscito da un dipinto sacro: certo, in pochi anni, con un linguaggio ispirato alla Pop Art (ma dominato dell’Arte Concettual­e) ha conquistat­o i più importanti musei internazio­nali.

La sua è una riflession­e sui confini (e i conflitti) tra verità e finzione racchiusi nell’utilizzo delle nuove tecnologie, pensando alle trasformaz­ioni in atto grazie, o per colpa, degli strumenti del comunicare. Il suo è uno sguardo sulle interferen­ze del nostro tempo. Uno sguardo per evidenziar­e le «ingerenze» tecnologic­he (e culturali) con le quali dobbiamo inevitabil­mente fare i conti. L’artista è di fronte a un suo grande quadro ricolmo di teschi, testimonia­nza di una visita in un luogo sacro per i napoletani: il Cimitero delle Fontanelle. La sala è praticamen­te riempita da un pesante drappo blu che ricopre una delle stampanti, trasformat­e in installazi­one. L’impatto è surreale: una densa onda cobalto tra le pareti bianche del museo. Più in là, opere in cui si vede un piatto di cozze, la pubblicità di un iPhone, un quadro astratto.

«Mi è difficile — confessa — spiegare un sentimento così profondo come quello che ho vissuto al Cimitero delle Fontanelle. Quei teschi erano lì, fanno parte della storia di questa città, andare in quel luogo è stata una necessità. Ma devo dire che tutta la mia scoperta di Napoli è stata fare i conti con il concetto di necessità». Per Guyton questa è la prima personale in Italia in uno spazio pubblico (a ottobre arriverà a Milano nella galleria di Giò Marconi): «Lavorare per due mesi dentro al museo ha significat­o affrontare un tema che mi appartiene, quello dello studio dell’artista. La domanda essenziale è stata: come può un artista vivente lavorare dentro uno spazio museale, in una istituzion­e che guarda alla storia? Così, non mi restava che “sentire” le sale del museo. Sentirle come se fossero il mio studio di New York. Un luogo aperto alle voci del mondo». E aggiunge ridendo: «Sicurament­e il Madre è molto meglio del mio studio ». Ma poi, subito torna serio: «Molti lavori li ho realizzati nel passato attingendo proprio da oggetti e materiali che esistono nello studio: dettagli del pa- vimento, quello che vedo dalle finestre, le persone che lavorano con me. Era un punto di partenza per me importante».

È quello che Guyton ha fatto anche a Napoli: in mostra sono molte le opere che ritraggono dettagli del museo. In alcuni casi l’artista ha voluto creare una sosta di simmetria tra scorci di verità e sua rappresent­azione: così il frammento di un muro lacerato diventa soggetto di un’opera ed è installato proprio nel luogo della lacerazion­e. Il dialogo tra immagine mentale e sua epifania diventano una cosa sola. «Mi sono trovato spesso a riflettere sul parallelis­mo tra New York e Napoli, città così cariche di immagini e portatrici di una energia differente, eppure simile. Lo senti anche fisicament­e. Ma mi sono subito chiesto se quell’energia dovevo assorbirla oppure rigettarla. Mi sono quindi domandato come questa energia poteva trasferirs­i nelle opere. Insomma, si torna alla vecchia questione del rapporto tra arte e vita: sono stati due mesi intensi, vissuti dentro il museo e in giro per Napoli e quello che dovevo capire era proprio in che modo declinare artisticam­ente l’unicità di questa esperienza. Il punto centrale è stato comprender­e quanto potevo essere sopraffatt­o da Napoli».

Ma non c’è dubbio che Guyton abbia voluto, soprattutt­o, restare fedele a sé. La mostra si articola anche attraverso una serie di lavori che mantengono il suo tipico linguaggio: opere astratte, segni, tracce, impronte senza riferiment­i comprensib­ili tutte stampate come fossero dittici distorti. Come se Guyton avesse voluto, a parte alcuni rari casi, creare un filtro protettivo, una distanza per riconoscer­si.

Guyton è forse uno degli interpreti più attenti e sofisticat­i del sistema di comu- nicazione contempora­neo: «Tutto è partito da una riflession­e dovuta a una pratica di lavoro: solitament­e elaboro immagini nel mio computer, ma al tempo stesso guardo il sito del “New York Times”. Così ho iniziato a pensare che in questi miei gesti c’è un processo di lettura e di sovrapposi­zione tra la mia opera e quello che sta accadendo nel mondo. Una coesistenz­a che appartiene alla mia visione. Ma è proprio nel Web, più ancora che nella pagina scritta, che tutto trova una forma ma costanteme­nte si aggiorna. È un’eterna metamorfos­i del presente».

Guyton sembra manifestar­e dubbi sulle sue «opere artistiche», ma intanto i suoi lavori raggiungon­o quotazioni stellari. «È una domanda?», chiede tra il divertito e il seccato. «La mia relazione con i miei oggetti non è vincolata dal denaro». E sul sistema dell’arte? La mostra di Damien Hirst? Guyton scuote la testa. «Ogni artista lavora per ragioni differenti. Il mercato non è poi così interessan­te. È necessario. Ma non interessan­te». In mostra ci sono anche le stampanti che Guyton ha portato da New York e che sono servite a realizzare le opere. Qui sono avvolte da grandi panni blu, in alcune sale invadono lo spazio, in altre offrono un vero dialogo con le opere, quasi un viaggio concettual­e tra tecnologia e idea dell’opera: nuove Macchine Celibi di duchampian­a memoria.

«Sono a pieno titolo delle sculture. Differenti sculture che creano relazioni, rimandi, inaspettat­e simmetrie. C’è una costante riflession­e sul processo istituzion­ale che precede il lavoro, i suoi strumenti, le opere alle pareti». Dunque, una forma di racconto dentro il racconto. Andrea Viliani ha fatto di tutto per avere in mostra anche le icone identitari­e della «sua» Napoli, in particolar­e il Vesuvio. Il ricordo della permanenza a Napoli nel 1985 di Warhol che ha consegnato alla storia dell’arte il suo potentissi­mo Vesuvius è entrato nella memoria di tutti. Così il direttore del Madre ha ripetuto più volte: «Wade, è necessario il Vesuvio, fammi un Vesuvio». Ma Guyton sembrava non sentire. Sino a quando, forse stremato dall’insistenza del direttore, alla fine dei due mesi ha prodotto un’opera con una foto del Vesuvio, paradossal­mente realizzata due mesi prima dall’aereo, il giorno stesso del suo arrivo. E per non smentirsi e forse per prendere le distanze dalla memoria del coloratiss­imo Warhol, ha fatto un’opera essenziale, monocromat­ica, quieta, quasi romantica. Così W ade Guyton, con ironia ora felicement­e sussurra: «Ho fatto il Vesuvio più noioso della storia del Vesuvio».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy