Corriere della Sera - La Lettura
Il mio Vesuvio? Il più noioso della storia
Napoli Wade Guyton è uno degli artisti più affermati sulla frontiera della sperimentazione digitale. Il Madre ospita una sua personale, con un’opera che sembra prendere le distanze dal capolavoro di Warhol. «Ho lavorato due mesi dentro al museo»
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«Si amo arrivati », annuncia perentorio W ade Guyton. Ed è davvero così: artista tra i più affermati nella complessa frontiera della sperimentazione digitale, Guyton si è letteralmente insediato per due mesi al Museo Madre di Napoli con tutta la sua squadra di assistenti, macchinari per la stampa ed enormi rulli di carta. Così, citando una pubblicità del sito de «Il Mattino» che annuncia l’arrivo del McDonald’s in galleria a Napoli (indiretto omaggio a Warhol) Guyton ha stampato, fotografato, reinventato nuovi spazi e ha costruito una mostra davvero innovativa dopo aver trasformato il museo in un’estensione simbolica del suo studio di New York. Un’esperienza a suo modo unica, nata dalla volontà di Andrea Viliani, direttore del Madre: tutto, infatti, è stato realizzato qui, in queste sale, frutto di una residenza in cui Guyton è stato costretto a fare i conti con l’energia surreale dei Quartieri Spagnoli, con lo sguardo più agiato degli abitanti di Posillipo e con i riti pagani della Napoli sotterranea delle Fontanelle. Con le molte anime di Napoli.
Lo sguardo di Guyton denuncia tratti di timidezza. Parla con lunghe pause, la voce è profonda. I capelli che gli scendono sulle spalle alimentano un’immagine solenne. Non c’è quindi da stupirsi se durante le sue missioni fotografiche, lungo i vicoli, impertinenti ragazzini gli urlavano: «Ma addò va chist’? Mme pare Gesù Crist’!». E davvero questo artista di Hammond, Indiana, classe 1972, sembra uscito da un dipinto sacro: certo, in pochi anni, con un linguaggio ispirato alla Pop Art (ma dominato dell’Arte Concettuale) ha conquistato i più importanti musei internazionali.
La sua è una riflessione sui confini (e i conflitti) tra verità e finzione racchiusi nell’utilizzo delle nuove tecnologie, pensando alle trasformazioni in atto grazie, o per colpa, degli strumenti del comunicare. Il suo è uno sguardo sulle interferenze del nostro tempo. Uno sguardo per evidenziare le «ingerenze» tecnologiche (e culturali) con le quali dobbiamo inevitabilmente fare i conti. L’artista è di fronte a un suo grande quadro ricolmo di teschi, testimonianza di una visita in un luogo sacro per i napoletani: il Cimitero delle Fontanelle. La sala è praticamente riempita da un pesante drappo blu che ricopre una delle stampanti, trasformate in installazione. L’impatto è surreale: una densa onda cobalto tra le pareti bianche del museo. Più in là, opere in cui si vede un piatto di cozze, la pubblicità di un iPhone, un quadro astratto.
«Mi è difficile — confessa — spiegare un sentimento così profondo come quello che ho vissuto al Cimitero delle Fontanelle. Quei teschi erano lì, fanno parte della storia di questa città, andare in quel luogo è stata una necessità. Ma devo dire che tutta la mia scoperta di Napoli è stata fare i conti con il concetto di necessità». Per Guyton questa è la prima personale in Italia in uno spazio pubblico (a ottobre arriverà a Milano nella galleria di Giò Marconi): «Lavorare per due mesi dentro al museo ha significato affrontare un tema che mi appartiene, quello dello studio dell’artista. La domanda essenziale è stata: come può un artista vivente lavorare dentro uno spazio museale, in una istituzione che guarda alla storia? Così, non mi restava che “sentire” le sale del museo. Sentirle come se fossero il mio studio di New York. Un luogo aperto alle voci del mondo». E aggiunge ridendo: «Sicuramente il Madre è molto meglio del mio studio ». Ma poi, subito torna serio: «Molti lavori li ho realizzati nel passato attingendo proprio da oggetti e materiali che esistono nello studio: dettagli del pa- vimento, quello che vedo dalle finestre, le persone che lavorano con me. Era un punto di partenza per me importante».
È quello che Guyton ha fatto anche a Napoli: in mostra sono molte le opere che ritraggono dettagli del museo. In alcuni casi l’artista ha voluto creare una sosta di simmetria tra scorci di verità e sua rappresentazione: così il frammento di un muro lacerato diventa soggetto di un’opera ed è installato proprio nel luogo della lacerazione. Il dialogo tra immagine mentale e sua epifania diventano una cosa sola. «Mi sono trovato spesso a riflettere sul parallelismo tra New York e Napoli, città così cariche di immagini e portatrici di una energia differente, eppure simile. Lo senti anche fisicamente. Ma mi sono subito chiesto se quell’energia dovevo assorbirla oppure rigettarla. Mi sono quindi domandato come questa energia poteva trasferirsi nelle opere. Insomma, si torna alla vecchia questione del rapporto tra arte e vita: sono stati due mesi intensi, vissuti dentro il museo e in giro per Napoli e quello che dovevo capire era proprio in che modo declinare artisticamente l’unicità di questa esperienza. Il punto centrale è stato comprendere quanto potevo essere sopraffatto da Napoli».
Ma non c’è dubbio che Guyton abbia voluto, soprattutto, restare fedele a sé. La mostra si articola anche attraverso una serie di lavori che mantengono il suo tipico linguaggio: opere astratte, segni, tracce, impronte senza riferimenti comprensibili tutte stampate come fossero dittici distorti. Come se Guyton avesse voluto, a parte alcuni rari casi, creare un filtro protettivo, una distanza per riconoscersi.
Guyton è forse uno degli interpreti più attenti e sofisticati del sistema di comu- nicazione contemporaneo: «Tutto è partito da una riflessione dovuta a una pratica di lavoro: solitamente elaboro immagini nel mio computer, ma al tempo stesso guardo il sito del “New York Times”. Così ho iniziato a pensare che in questi miei gesti c’è un processo di lettura e di sovrapposizione tra la mia opera e quello che sta accadendo nel mondo. Una coesistenza che appartiene alla mia visione. Ma è proprio nel Web, più ancora che nella pagina scritta, che tutto trova una forma ma costantemente si aggiorna. È un’eterna metamorfosi del presente».
Guyton sembra manifestare dubbi sulle sue «opere artistiche», ma intanto i suoi lavori raggiungono quotazioni stellari. «È una domanda?», chiede tra il divertito e il seccato. «La mia relazione con i miei oggetti non è vincolata dal denaro». E sul sistema dell’arte? La mostra di Damien Hirst? Guyton scuote la testa. «Ogni artista lavora per ragioni differenti. Il mercato non è poi così interessante. È necessario. Ma non interessante». In mostra ci sono anche le stampanti che Guyton ha portato da New York e che sono servite a realizzare le opere. Qui sono avvolte da grandi panni blu, in alcune sale invadono lo spazio, in altre offrono un vero dialogo con le opere, quasi un viaggio concettuale tra tecnologia e idea dell’opera: nuove Macchine Celibi di duchampiana memoria.
«Sono a pieno titolo delle sculture. Differenti sculture che creano relazioni, rimandi, inaspettate simmetrie. C’è una costante riflessione sul processo istituzionale che precede il lavoro, i suoi strumenti, le opere alle pareti». Dunque, una forma di racconto dentro il racconto. Andrea Viliani ha fatto di tutto per avere in mostra anche le icone identitarie della «sua» Napoli, in particolare il Vesuvio. Il ricordo della permanenza a Napoli nel 1985 di Warhol che ha consegnato alla storia dell’arte il suo potentissimo Vesuvius è entrato nella memoria di tutti. Così il direttore del Madre ha ripetuto più volte: «Wade, è necessario il Vesuvio, fammi un Vesuvio». Ma Guyton sembrava non sentire. Sino a quando, forse stremato dall’insistenza del direttore, alla fine dei due mesi ha prodotto un’opera con una foto del Vesuvio, paradossalmente realizzata due mesi prima dall’aereo, il giorno stesso del suo arrivo. E per non smentirsi e forse per prendere le distanze dalla memoria del coloratissimo Warhol, ha fatto un’opera essenziale, monocromatica, quieta, quasi romantica. Così W ade Guyton, con ironia ora felicemente sussurra: «Ho fatto il Vesuvio più noioso della storia del Vesuvio».