Corriere della Sera - La Lettura

L’ultima lettera dal Rinascimen­to: eccoi segreti del palazzo di Borso, duca d’Este

Una campagna di studi svela che cosa si nasconde dietro le pareti perdute di Schifanoia, la residenza del signore di Ferrara: una caravella (vent’anni prima del viaggio di Colombo), alcuni ritratti... e una sorprenden­te iscrizione

- dalla nostra inviata a Ferrara ANNA GANDOLFI

Pio II, pontefice e cronista, lo fissa in un’immagine: «Mai si mostrò in pubblico senza gioielli». Sono gli anni splendidi delle corti rinascimen­tali e Borso d’Este macina ambizioni, puntando a diventare duca di Ferrara. Quando finalmente l’investitur­a viene fissata, rompe gli indugi: per la cerimonia vuole ingioiella­to anche Palazzo Schifanoia.

L’Officina ferrarese si mette al lavoro nel 1469 con mandato preciso: l’opera sia grandiosa. I maestri dipingono a tappe forzate — la cerimonia è attesa per il 1471 — e nel Salone dei Mesi prende forma uno dei cicli pittorici a tema profano tra i più importanti dell’epoca giunti fino a noi. O quasi. Perché se Borso non fa un passo senza consultare gli astri, quella volta nessuno gli predice un doppio, sfortunato destino: lui morirà di lì a poco e il capolavoro sarà messo alla prova da terremoti, tecniche inadatte e semplici follie (il palazzo diventerà manifattur­a tabacchi e granaio). In due pareti su quattro, personaggi e simboli svaniscono, consegnand­o ai posteri un rebus. Perché nella stessa scena alcune figure si sono dissolte e altre no? Quali «fantasmi» si nascondono tra i colori? Per cercare risposte, dopo oltre cinque secoli, scende in campo la scienza e lì dove si sono scervellat­i storici e artisti arrivano radiazioni ultraviole­tte, infrarossi, spettrosco­pie.

Il risultato è la mappa dei pigmenti perduti che permette di intraveder­e l’invisibile. Non solo. Si scopre che la maledizion­e del Salone dei Mesi ha un nome: opulenza. Ed emergono nuovi interrogat­ivi perché, come inchiostro simpatico con la fiamma, la fluorescen­za fa riaffiorar­e antiche iscrizioni: i muri di Schifanoia erano (anzi, sono) parlanti.

La corte e la politica

Il Comune di Ferrara nel 2014 ha avviato la prima campagna di analisi scientific­he sul palazzo estense, incaricand­o il Centro di arti visive (Cav) dell’Università di Bergamo, un’autorità del settore che dalla sua, oltre a un database con migliaia di pezzi scandaglia­ti, ha successi e scoperte internazio­nali. L’obiettivo: guardare, letteralme­nte, dentro al ciclo dei Mesi per conservarl­o e capirlo meglio. Un atto dovuto, trattandos­i, come ricorda lo storico dell’arte Giovanni Carlo Federico Villa, direttore del Cav, «di un caposaldo della cultura occidental­e delle corti». «I vent’anni del governo di Borso — aggiunge Giovanni Sassu, conservato­re dei Musei della città emiliana — hanno avuto un ruolo centrale sul piano figurativo: il linguaggio ri- cercato ed eccentrico che fa grande l’arte ferrarese nasce proprio in questo periodo». Ed è per autocelebr­arsi che, sul finire del XV secolo, il signore commission­a un’opera destinata a rappresent­are il «vertice espressivo della pittura estense». Un’impresa collettiva in cui si distingue Francesco del Cossa, «autore — conclude Sassu — di un’abbagliant­e traduzione visiva della cultura di corte e delle ambizioni politiche di Borso».

Ecco, la politica. In quegli anni Ferrara è un modello. Lo conferma Marco Pellegrini, docente universita­rio di storia rinascimen­tale e saggista: «La casa d’Este era abituata a proteggers­i dalle mire di Venezia grazie a un gioco sapiente di alleanze, ragion per cui fu un laboratori­o tra i più precoci della diplomazia moderna». Non a caso nei 12 mesi in cui si articolano i dipinti s’incrociano astri e diari del buongovern­o.

I muri parlanti

Palazzo Schifanoia, ferito dal sisma del 2012, chiuderà l’8 gennaio 2018 per restauri struttural­i: è il momento di tirare le somme delle indagini. Tra le scoperte c’è, innanzitut­to, quella dei «muri parlanti». «Il salone — spiega Villa a “la Lettura”— è punteggiat­o da lastre pictae: si immaginava fossero decorate, eppure nessuna era leggibile». Fino a che sulle pareti sono stati proiettati i raggi Uv e la realtà ha superato l’immaginazi­one. «La fluorescen­za, su una delle tavole, ha colto trame fittissime di parole, addirittur­a novanta righe. Bizzarro: all’epoca i cartigli erano ben più ridotti. Faremo altri test

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