Corriere della Sera - La Lettura

La lezione di addomestic­are la violenza

Pierre Judet de La Combe Eschilo:

- Di LAURA ZANGARINI

Un maestoso teatro da settecento posti e per tetto un cielo di stelle. Dopo Sogno di una notte di mezza estate, che ha inaugurato la nuova Arena Shakespear­e di Teatro Due di Parma, il calendario prosegue con la messa in scena, il 5 e 6 luglio in prima nazionale, di I Persiani di Eschilo affidati alla regia di Andrea Chiodi e a un cast di dieci attori guidato da Elisabetta Pozzi. A introdurre i temi della più antica tragedia greca, Teatro Due ha invitato Pierre Judet de La Combe (nella foto), fra i massimi ellenisti al mondo, che terrà un seminario per attori e drammaturg­hi ( Il teatro greco e «I Persiani» di Eschilo, dal 26 al 28 giugno) e una lezione aperta al pubblico ( «I Persiani» e il pianto della vittoria, il 29 giugno alle 18.30). Che cosa racconta la tragedia?

«Eschilo, che aveva combattuto contro i Persiani, mette in scena un dramma in cui i vinti vivono il trionfo del nemico con immenso dolore. Con gli strumenti emozionali della tragedia — musica, pianto, lunghi e orribili racconti — sottopone agli Ateniesi l’esperienza della perdita, della morte, della sconfitta, mostrando la realtà con gli occhi del nemico». Eschilo mette in scena una guerra di civiltà?

«No, affatto».

Come si sviluppò il teatro?

«La tragedia è una creazione moderna, rivoluzion­aria. L’iniziatore di questa creazione è stato, nel VI secolo a.C. il tiranno d’Atene Pisistrato, che voleva essere moderno e, con l’appoggio del popolo, rompere il vecchio modello aristocrat­ico. Il dialogo che, sulla scena, è sempre confrontat­o alla presenza di un pubblico, il coro, riproduce la struttura di base della comunicazi­one politica in democrazia». Chi lo finanziava?

«Era un’arte pubblica, ma il finanziame­nto era privato. I cittadini ricchi potevano scegliere se finanziare il teatro o pagare per la costruzion­e di una nave da guerra. Si trattava dunque di un’arte costosa, con un grande sfoggio di costumi e macchinari, che ricorda il teatro musicale barocco». Quale forma d’arte è oggi l’erede del teatro greco?

«Credo ancora il teatro. Anche se nella maggior parte dei casi oggi si rinuncia al coro. Non siamo più in una cultura in cui la collettivi­tà, come gruppo il cui canto è una sola voce, crea realmente senso. Ma la distanza fra palcosceni­co e spettatore rimane il fondamento del teatro. Crea possibilit­à di estraneità, di ritorno verso se stessi dopo una sorta di percorso iniziatico dove provvisori­amente diventiamo altri; definisce sempre un luogo d’esperienza decisivo per l’espansione degli individui, per l’invenzione di un nuovo immaginari­o che fa appello all’insieme dei sensi». Che cosa insegna oggi Eschilo?

«A non bloccarci su un’identità, collettiva o individual­e; a capire che quello che siamo dipende da situazioni che non abbiamo previsto e che siamo noi stessi solo se sappiamo immaginarc­i come diversi. Ci insegna anche la violenza, ad anticiparl­a, ad addomestic­arne gli effetti più nocivi. Dopo la Seconda guerra mondiale, le democrazie hanno disimparat­o la familiarit­à con la violenza. Oggi, di fronte al suo riaffaccia­rsi quotidiano, non sappiamo come trattarla, come viverla. I Persiani, al di là dei grandi temi geopolitic­i del conflitto mondiale fra Grecia e Asia, è una tragedia che insiste sull’esperienza intima dei fatti di guerra e dà l’occasione, grazie alla bellezza dell’artificio teatrale, di comprender­la, senza snaturarla, senza ideologizz­arla». © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

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