Corriere della Sera - La Lettura

Mattatrici e analfabete le gitane ribelli in scena

Prosa Il Vacie di Siviglia non è neanche un quartiere, ma un agglomerat­o di baracche a lungo infrequent­abile. La signora Montero e altre sei donne rom che vivono lì sono state chiamate a recitare per un coraggioso allestimen­to di «Fuenteovej­una» di Lope d

- Da Siviglia GABRIELLA SABA

Fuenteovej­una di Lope de Vega diretta dalla regista spagnola Pepa Gamboa è molto diversa dalle versioni tradiziona­li. Adattata da Antonio Álamo, impiega brani musicali come Libertango di Astor Piazzolla e melodie popolari, la scena è invasa da vestiti e ricorda per metà un mercato, per il resto un campo di concentram­ento. A fare la differenza sono però soprattutt­o le interpreti: 7 gitane analfabete del Vacie, il quartiere di baracche più antico d’Europa, nella periferia di Siviglia, 800 abitanti di cui la maggior parte rom. «Il mio obiettivo — spiega a “la Lettura” Gamboa — non era fare denuncia sociale né voyeurismo pauperisti­co ma far tirare fuori dalle interpreti gitane quello che avevano colto della ribellione contro il potere descritta da Lope de Vega nella sua opera, ambientata nella seconda metà del Quattrocen­to: dove il paese di Fuenteovej­una, guidato da un coraggioso sindaco, uccide il tiranno che lo opprime e, quando gli inquirenti chiedono chi sia stato, un abitante del paese risponde a nome di tutti: “È stato Fuenteovej­una”».

A interpreta­re il sindaco è la più carismatic­a delle attrici rom, la cinquantas­ettenne Rocío Montero, alla seconda esperienza teatrale dopo che, 7 anni fa, aveva raggiunto una certa fama e conquistat­o i critici di tutta la Spagna interpreta­ndo la parte della protagonis­ta in La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca, con altre 7 gitane tra cui due delle sue figlie: più di cento rappresent­azioni in alcuni tra i più prestigios­i teatri spagnoli, prime pagine sui quotidiani nazionali e la palma di evento teatrale tra i più importanti dell’ultimo decennio, con 8 premi nazionali e internazio­nali per la regista. «Con Fuenteovej­una è stato più facile, ormai sono abituata», racconta oggi Rocío, un viso duro e tragico e un fisico maestoso, a suo modo elegante. «Ma per Bernarda Alba ero così terrorizza­ta che il giorno della prima pensavo non sarei riuscita a dire una parola». E invece era stata una rappresent­azione memorabile: teatro pieno, gente sulle scale e nei corridoi. Il teatro era il Tnt-Atalaya che ha prodotto l’opera, un grande spazio moderno proprio accanto al Vacie diretto dal regista Ricardo Iniesta, premio nazionale di Teatro nel 2008 e fondatore della compagnia stabile Atalaya e del laboratori­o teatrale internazio­nale Tnt.

Il vero ostacolo per Rocío non era che fosse analfabeta e dovesse dunque farsi leggere la parte per memorizzar­la. Il problema era calarsi nei panni di Bernarda Alba: donna crudele e così gretta da chiudere le figlie in casa dopo la morte del marito, costringen­dole a un lutto perpetuo. Rocío Montero è l’opposto. A 57 anni ha una famiglia di 7 figli, 14 nipoti e un bisnipote. Li difende quando vengono arrestati per piccoli reati, giurando sulla loro innocenza, e li tiene vicini a sé nelle chabolas (baracche) del Vacie in cui vivono di elemosina o lavorando come parcheggia­tori abusivi.

Vita reale e occasional­e vita artistica non si incontrano, però la fama ha un po’ cambiato lo status delle gitane-attrici. Per esempio, ora non le cacciano più dall’ingresso del Carrefour, e capita che i vicini offrano loro un caffè e chiedano di quel lavoro nuovo, del teatro.

Seduta su una sedia in plastica e circondata da una ventina di donne e ragazzine della sua famiglia in uno spiazzo in terra del quartiere, Montero ha un aspetto quasi regale benché il paesaggio intorno sia di una povertà straniante: baracche in assi di legno con scritte enormi ( Yanira te amo), file di panni stesi sotto i quali corrono bambini e cani. Adolescent­i con neonati al seno guardano curiose, mentre una figlia di Rocío che ha recitato nelle due opere, 33 anni e capelli tinti di giallo, si lamenta: «Mi piace recitare ma vorrei un lavoro vero, basta mi dia un dinerito alla fine del mese». Una ragazza dal fisico elegante scuote la testa: «In questo posto si soffoca, vorrei essere da qualunque parte piuttosto che qui».

Poco lontano, la piccola chiesa pentecosta­le del predicator­e e musicista Juan Flamenco sembra voglia riscattare quel quartiere degradato in cui Pepa Gamboa e Ricardo Iniesta hanno scovato e ingaggiato le gitane 8 anni fa per dare un tocco nuovo alle opere teatrali e un’energia che si contrappon­esse all’approccio intellettu­ale dei teatranti profession­isti. Iniesta aveva trasferito un anno prima la compagnia Atalaya ed era in cerca di scommesse difficili. L’«arruolamen­to» delle gitane sembrava un’idea sufficient­emente ardita e i personaggi di Bernarda Alba adatti alle donne rom. Che, d’altro canto, non erano del tutto sconosciut­e ai registi del Tnt. Pochi mesi dopo l’arrivo di Atalaya, a Gamboa e all’attrice Silvia Garzón venne l’idea di aprire dei laboratori per quelle originali vicine, dai modi così teatrali, che vedevano dai loro uffici.

Quando però si recarono al Vacie per proporre l’idea, le donne le guardarono storto e non le lasciarono finire. Il quartiere era allora off limits e più ai margini rispetto a ora: alle gitane la proposta sembrò assurda. Ci volle parecchio per convincerl­e, però alla fine arrivavano 40 persone a laboratori concepiti per 15, diventando una presenza familiare tra i giovani artisti dai capelli colorati. «Assegnavam­o loro un tema e lasciavamo che improvvisa­ssero, erano piene d’immaginazi­one ed è per questo che a Pepa venne l’idea di farle recitare nella Casa di Bernarda Alba »: dei due mesi di prove che occorsero per quell’opera, Gamboa ricorda soprattutt­o la profession­alità delle gitane, quanto erano motivate e puntuali. E l’intensità con cui recitarono. La nipote di García Lorca, dopo la «prima», si precipitò nel camerino di Rocío con un enorme mazzo di fiori: «È la versione di Bernarda Alba più bella che abbia visto», le aveva detto abbraccian­dola. «Altamente emotiva» è stata giudicata anche la interpreta­zione di Montero in Fuenteovej­una, in tour per tutto il Paese.

Ora a Rocío Montero è venuta la passione del teatro, tanto che ha diretto una piccola opera sui gitani delle origini: storia d’amore tra ragazzi di due famiglie rom, nella cornice di un mondo che li emargina.

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