Corriere della Sera - La Lettura

Rancore senza remore cavalcato dalla politica

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Come possono essere così certi? Nessun segno di perplessit­à, di titubanza o esitazione. Altrimenti non potrebbero umiliare, schernire, offendere. Chi odia non ha dubbi. Perché se ne avesse, anche solo sul proprio odio, dovrebbe fermarsi un istante. Allora prenderebb­e quella distanza, da cui tutto appare più sfumato, acquistere­bbe quel distacco che consente di vedere, come in una mappa ingrandita, i contorni individual­i, le caratteris­tiche peculiari, le molteplici differenze. L’odio avversa i colori, aggira le nuance; attecchisc­e nell’universo ridotto alla monotonia del bianco e del nero.

Insieme ad altri sentimenti l’odio ha accompagna­to l’umanità e la sua storia. Ira sedimentat­a, avversione intensa nutrita da un’invidia convulsa e rafforzata da una cupa spietatezz­a, contraltar­e nevrotico e parossisti­co dell’amore, sopravvent­o della volontà di potenza, impulso distruttiv­o, desiderio impellente di nuocere, che tradisce sfiducia in se stessi e diffidenza verso gli altri, l’odio ha lasciato più di un interrogat­ivo aperto. In genere, però, ha prevalso l’idea che questo sentimento fosse una patologia del carattere, una perversion­e quasi naturale, una distorsion­e del singolo.

Dunque l’odio è sempre esistito, esisterà sempre. «Nulla di nuovo», si potrebbe dire. Ma le cose stanno diversamen­te. Perché è venuto meno quel ritegno che prima arginava l’insofferen­za nascosta e subliminal­e, che tratteneva il rifiuto. Come se, dopo l’età del libero amore, si fosse entrati nell’età del libero odio. Ogni remora è caduta. Si può odiare apertament­e. E lo si può fare ovunque, in privato e in pubblico: nelle pareti domestiche, nella riunione condominia­le, nel parcheggio, sull’autobus, alla fermata del semaforo, nel supermerca­to, al lavoro, tra colleghi, tra semplici conoscenti o tra sconosciut­i, in internet, su Facebook, durante le conferenze, nei dibattiti, sui giornali, nei talk show, nelle sedute parlamenta­ri. L’odio viene indirizzat­o in alto, contro i politici, quelli che sono tutti corrotti; in basso, contro i cenciosi stranieri, quelli che rubano casa e lavoro. Il più delle volte viene riversato su quegli altri che, nella loro alterità, sembravano aver trovato una qualche accettazio­ne — tutti quelli che appaiono differenti per aspetto, per credo, per forma di vita.

«Quando è troppo è troppo!». «La tolleranza ha un limite!». «Che cosa pretendere­bbero ancora le donne, dopo tutto quello che hanno già avuto? Parità di stipendi? Uguale riconoscim­ento?». Così, se vengono licenziate, è perché non hanno tenuto il ritmo, erano assenti. Se subiscono discrimina­zioni, in ufficio o in fabbrica, forse in gran parte esagerano. Volevano divorzio, libertà, pari diritti — ed ecco qui le violenze. «Fossero rimaste al loro posto, non ci sarebbero i femminicid­i».

Il resoconto della «tolleranza zero» potrebbe proseguire. Quanto agli ebrei, «con questa storia interminab­ile della Shoah, hanno proprio stufato. Sai quanti altri genocidi ci sono!? E chissà poi che ci sarà di vero. No, noi non siamo negazionis­ti». Attenti poi all’«islamizzaz­ione» — parola inquietant­e, sempre più rilanciata nel web, calco di «ebraizzazi­one», termine chiave del lessico nazista. «No, noi non siamo islamofobi. Ma quei musulmani che vivono qui, tra noi, anche se da anni, da decenni, farebbero meglio ad andarsene. Nessuna cittadinan­za per i loro figli, anche se conoscono la lingua italiana, la storia e la cultura. Non vogliamo essere sottomessi. Il terrorismo non è forse islamico? Sì, certo, le equazioni sono pericolose, ma in questo caso è proprio così». Inutile discutere.

Mentre si sono sviluppati e affinati in modo esponenzia­le i mezzi tecnici di comunicazi­one, sempre più ridotta è paradossal­mente la capacità di dialogo e di confronto. Le parti si sono rovesciate: si trova a disagio chi è abituato al rispetto, condizione di ogni rapporto, va fiero, invece,

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