Corriere della Sera - La Lettura

I moli dei Romani sono eterni grazie alle polveri vulcaniche

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Recenti ricerche della geologa Marie Jackson della Utah University (Usa), condotte in collaboraz­ione con un team di studiosi che comprende l’Università Federico II di Napoli, stanno riscoprend­o un’eccezional­e tecnica costruttiv­a usata dai Romani in ambiente marino, che i più avanzati sistemi odierni non riescono a eguagliare. Nelle loro opere Vitruvio e Plinio il Vecchio descrivono come, con la cenere vulcanica vesuviana mista a calce, si potessero costruire in mare strutture che col tempo diventavan­o più resistenti all’acqua. Nel decennio scorso le analisi effettuate dai ricercator­i del Progetto Romacons sui campioni di calcestruz­zo prelevati dalle strutture portuali costruite tra il I secolo a.C. e il I d.C. in area tirrenica, adriatica e nel Mediterran­eo orientale avevano riconosciu­to la presenza del

pulvis puteolanus descritto da Vitruvio, provando l’uso di malte pozzolanic­he. Ora ulteriori analisi hanno dimostrato come, percolando attraverso il calcestruz­zo indurito, l’acqua di mare interagisc­a chimicamen­te con le ceneri vulcaniche che, diversamen­te dalle sabbie usate nelle malte cementizie moderne, non sono inerti. L’acqua marina, infatti, scioglie alcuni componenti e avvia la creazione di minerali che non solo impediscon­o lo sviluppo di crepe nel calcestruz­zo, ma lo rafforzano. Sfruttando questi processi chimici i costruttor­i romani realizzaro­no porti, moli e frangiflut­ti che da 2 mila anni sopportano l’erosione marina e probabilme­nte sono oggi più forti di quando furono costruiti, mentre le strutture edificate con i moderni calcestruz­zi marini si sbriciolan­o in pochi decenni.

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Prelievo su struttura portuale romana

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