Corriere della Sera - La Lettura
Il Gattopardo ha ragione Tutto è diverso, nulla cambia
Una regione a metà tra due geografie e due epoche, «a disagio in tutt’e due». Qui è sempre l’indomani di qualcosa (lo sbarco degli Alleati, le stragi del 1992...) senza essere l’inizio di qualcos’altro
Tomasi di Lampedusa ha purtroppo ragione. «E noi torto», ebbe a scrivere Leonardo Sciascia. Tutto è diverso, nulla è però cambiato. Sempre nuovi tempi gloriosi verranno, «il che» — è Don Fabrizio di Salina a parlare, il principe del Gattopardo — «ci è stato promesso in occasione dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e… non è mai successo».
Avete mai percorso la Palermo-Catania? L’autostrada che si avvia lungo il tratturo d’asfalto, quella del crollo del viadotto Himera — fintamente inaugurata da Matteo Renzi il 30 aprile 2016 quando riapre alla circolazione la corsia superstite — è la cerca dell’ombra nell’assoluto nulla. Quel volerne uscire dall’anatema di Tancredi — «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» — non è altro che un attardarsi nel deserto della disaffezione. Il Gattopardo è il libro che consente a Giuseppe Tomasi di Lampedusa di raccontare le reazioni del bisnonno all’indomani dello sbarco dei garibaldini a Marsala. Ne sono venuti tanti, di tempi nuovi. C’è stato l’indomani dell’invasione anglo-americana, quindi l’indomani dello Statuto Speciale, l’eterno indomani della Democrazia cristiana, poi l’indomani della stagione delle stragi di mafia, l’indomani di Silvio Berlusconi che vince 61 a zero in Sicilia, l’indomani della rivoluzione di Rosario Crocetta, l’indomani della traversata a nuoto dello Stretto alla volta di Messina di Beppe Grillo e l’indomani, infine, del buco di bilancio regionale che nessuna amministrazione al mondo potrebbe reggere ma che a Palermo, nell’immobilità propria della fogna del potere, conclama la disaffezione del minimo del minimo di una landa assolata.
A sessant’anni dalla morte di Giuseppe Tomasi da Lampedusa, la sua Sicilia situata in perpetua quarantena, lontana da tutto — anche dalla contemporaneità — abita l’apnea di una malia: la famosa bella addormentata cui una magia ha sospeso la vita. Il suo capolavoro, diventato un luogo comune, avvinto all’agonia di un’epoca passata contempla la rovina di ogni tempo a venire senza avere nessuna attività «ed ancora minore voglia di porvi riparo». Il corso delle generazioni che ha trasformato «efficienti cafoni in gentiluomini indifesi» si conduce alla deriva nel lento fiume del pragmatismo siciliano. Ecco il nostro tempo tutto cambiato, uguale a ciò che resta. Gli attuali vertici delle istituzioni, dal capo dello Stato al Presidente del Senato, fino al titolare della Farnesina — e cioè Sergio Mattarella, Pietro Grasso e Angelino Alfano — tutti siciliani, se non possono considerarsi ben lontani sono comunque estranei all’immobile rovinio di una periferia remota. Non succede niente e come Tomasi di Lampedusa — come il suo alter ego, Don Fabrizio — si è sempre a metà tra due geografie e così tra due epoche, i vecchi tempi e i nuovi: «A disagio in tutti e due». Tutte anime illuse e rapaci. In Lighea, ovvero, La Sirena — racconto tra i più belli scritto da Lampedusa — l’illustre professore La Ciura argomenta così: «Chiudete in una stanza cinque siciliani e cinque piemontesi col compito di risolvere un problema. Dopo un quarto d’ora i siciliani avranno una qualche soluzione in testa, e i piemontesi nessuna. Ma dopo un’ora i piemontesi avranno risolto il problema, e i siciliani no».
Un buon siciliano — si sa — è sempre un cattivo cittadino italiano. E i corsi — si sa — ricorrono ai ricorsi: le Province che il governatore uscente della Regione, Rosario Crocetta, aveva pittorescamente cancellato nel 2013 durante una sua comparsata all’Arena di Massimo Giletti, tornano giusto a smentire la finta riforma telepopulista. Tutto come prima.
L’avete dunque percorsa la Palermo-Catania? Già dopo lo svincolo di Buonfornello si lascia alle spalle il mare e vi fa entrare nella Sicilia più strenuamente indigena, nella parte per di più gravida di memoria. Ecco, le ombre. Ci s’inoltra e ancora si coglie l’eco di antiche grida — «la terra a chi lavora» — si scruta un monticciolo in direzione dell’estremo entroterra e vi rimbalza il crepitare delle mitragliatrici, quelle dei carabinieri ma ancora più violente sono quelle degli uomini agli ordini di Salvatore Giuliano. Un abbaglio e pare di vedere le bandiere rosse del Primo Maggio, appunto: chissà cosa succede a Portella della Ginestra. Da Ponte Cinque Archi ci si destina ai feudi scippati ai Lanza di Trabia dai patriarchi della mafia: Giuseppe Genco Rus- so da Mussomeli e Calogero Vizzini da Villalba. Andate ancora avanti. Si arriva all’altezza di Xirbi e c’è Emanuele Macaluso sulla sua bicicletta. Dietro di lui i compagni delle lotte contadine in marcia verso la Camera del Lavoro di Caltanissetta dove si raduna la marea dei braccianti pronti a occupare le terre. Ecco, Caltanissetta. Abbassate il finestrino e assaporate anche l’aroma del caramello che si sprigiona dagli alambicchi della ditta Averna. Rivolgete una piccola preghiera per il cimitero dei carusi, i bambini costretti al lavoro nelle zolfare, ma guidate ancora per raggiungere lo svincolo di Mulinello, da Assoro arrivano gli operai delle miniere, quelli di Floristella, Faccialavata e Zimbalio, tutti finalmente emancipati dalla morte sicura nei pozzi. Ancora un’altra uscita e c’è Raddusa. Ecco, osservate la distesa. Là dove c’era il feudo — la risorsa della morente schiatta baronale — vi dilaga il sol dell’avvenire. Non c’è più il marchese di Roccaverdina bensì il compagno Sacchinedda giunto da Leonforte per vendere «l’Unità» ai contadini di passaggio lungo le mulattiere. Appunto, le ombre.
Sembrava che fosse cambiato tutto — la modernità aveva dato pane e parola al popolo — e tutto questo viaggio, oggi, è solo un attraversare il deserto. Non si vede anima viva, solo sterpaglie e abbandono. A Sacchitello, alla stazione di servizio, solo le cimici piazzate per intercettare gli eventuali malviventi lasciano sperare una qualche vivacità ma la descrizione che ne ricaverete, ancora una volta uguale a quella che ne ebbe Tomasi di Lampedusa, è quella minuziosa di un regno minerale di fossili animati sebbene inanimati.
La licentia populandi, prerogativa accordata dai Vicerè ai Gattopardi affinché si fondassero nuove città nei latifondi — colonie di sopraffazione e comunque di vita nuova — suona beffarda a spiegarla oggi all’isola tenuta lontana da tutto. E non c’è figlio di famiglia in condizioni di permetterselo che non abbia già preso la via della fuga dalla Sicilia. Chiudono le scuole, i paesi si svuotano, la popolazione invecchia. Crocetta ha il buco. Lampedusa ha purtroppo ragione. E noi torto.