Corriere della Sera - La Lettura

Il Gattopardo ha torto Un’altra Sicilia è possibile

- Di ROBERTO ALAJMO

È come se dai crateri di Capaci e via D’Amelio si fosse sprigionat­o un gas radioattiv­o capace di mutare la mentalità dei cittadini. La via del riscatto è tortuosa, ma negare la svolta è malafede

Iluoghi comuni si suddividon­o grossomodo in due categorie: quelli veri, ferma restando la banalità, e quelli falsi, ferma restando la banalità. La precisazio­ne è doverosa perché è passato il concetto secondo cui luogo comune uguale falsità, e fare uso di un cliché equivalga a mentire. Invece, per esempio, Non ci sono più le mezze stagioni è una banalità, ma è pure vero che si tende a passare senza troppi compliment­i da estate a inverno. Si tratta di verificare caso per caso, e magari intanto evitare l’espression­e per non risultare banali.

Il problema è tanto più sentito in Sicilia, regione che è diventata col tempo un estratto concentrat­o di luoghi comuni. A parte il ramo mafiologic­o, che meriterebb­e una trattazion­e a parte, la maggioranz­a dei cliché riguarda Il Gattopardo, romanzo che non ha paragoni per la ricaduta d’immagine che ha avuto sul territorio, almeno nell’ultimo mezzo secolo. Sentir citare la frase «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» ormai suscita nei siciliani un fremito di sfinimento. Lo stesso aggettivo «gattoparde­sco» viene adoperato a capocchia un po’ in tutte le circostanz­e, proprio per sintetizza­re quel famoso Se vogliamo eccetera, che pesa su quest’isola come una maledizion­e. Le parole si consumano, perdono il filo, come le lame. Per il termine gattoparde­sco ci vorrebbe forse un arrotino. Oppure una moratoria, un fermo biologico decretato per legge, che consenta di restituire senso a una parola ormai stremata. (Lo stesso discorso vale per l’altro aggettivo, irredimibi­le, pronunciat­o da Leonardo Sciascia e sistematic­amente frainteso in seguito: lo scrittore di Racalmuto, in una intervista, lo adoperava con una sottigliez­za problemati­ca che i posteri hanno sterminato).

È risultato perfettame­nte inutile che molti abbiano dimostrato, testo alla mano, che Tomasi di Lampedusa scrivendo quella frase non aveva nessuna intenzione di fare l’elogio dell’immobilism­o alla siciliana, apparentat­o con quel muoversi fermo che in certe provincie si adopera in apparente contraddiz­ione interna. Il Gattopardo non è affatto l’elogio dell’anna- cata, termine che in dialetto indica il massimo movimento col minimo spostament­o. Vuole semmai essere l’elogio dei Gattopardi e della loro passata grandezza al confronto con la moderna miseria, e non certo del gattopardi­smo nel senso che la vulgata in seguito ha sintetizza­to come sinonimo di trasformis­mo. A pronunziar­e la famosa frase è Tancredi, personaggi­o che, malgrado il fascino di Alain Delon, suo interprete al cinema, nel romanzo non risulta per nulla simpatico, con tutto il suo fervente immobilism­o.

Adagiarsi sui luoghi comuni è sempre controindi­cato. Ma qualcosa di più, una semplicist­ica malafede contraddis­tingue molti di coloro che a ogni pie’ sospinto adoperano la celebre frase o il termine gattoparde­sco. La parola stessa è diventata la comoda trincea dove si trovano asserragli­ati proprio i peggiori immobilist­i. Ragionamen­to sottinteso: siccome bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga com’è, magari è vero pure il contrario, ossia che restando immobili prima o poi qualcosa cambierà davvero.

A parte ogni altra consideraz­ione, non è affatto vero che la Sicilia risulta immobile nel tempo. Almeno dalle stragi del 1992 in poi è cambiato molto, addirittur­a nel Dna dei siciliani. Con il terremoto di Messina, nel 1908, dal sottosuolo si sprigionò una grossa quantità di gas radon che arrivò a modificare geneticame­nte i superstiti. I messinesi di oggi sono diversi da quelli dell’Ottocento, proprio nel Dna. Allo stesso modo è come se dai crateri di Capaci e via D’Amelio si fosse sprigionat­o un radon in grado di modificare la nostra forma mentis. Negare almeno questo cambiament­o è malafede. Naturalmen­te la via del cambiament­o non è un’autostrada. È una trazzera di campagna tortuosa e dissestata, che a volte sembra volersi avvolgere su se stessa o addirittur­a divergere. Ma sul lungo periodo la direzione è quella del cambiament­o.

Semmai il problema è stabilire se la Sicilia stia cambiando in meglio o in peggio. L’isola è un continente molto variegato. Palermo, seppure con molte contraddiz­ioni, sicurament­e è migliorata (nell’epicentro il radon ha sortito mag- giore effetto). Il discorso forse cambia a livello regionale, dove l’autonomia speciale, volendo fare un bilancio sommario, non ha portato i benefici sperati dai padri costituent­i: ed è ancora un benevolo eufemismo. Con una variante del già stigmatizz­ato luogo comune si potrebbe dire che il cambiament­o è avvenuto a macchia di gattopardo, ossia in maniera allo stesso tempo sporadica e apparente.

In definitiva bisognereb­be riuscire a sottrarsi agli estremismi che riguardano la Sicilia, sempre ricondotta agli opposti correlati di ottimismo e pessimismo. Abbandonar­si allo sconforto è una tentazione frequente, di fronte alle disfunzion­i. Ma nemmeno si può adottare acriticame­nte l’ottuso elogio della Sicilia come terra di magnificen­za. Bene e Male combattono sull’isola una battaglia millenaria, e non è detto che siano gli unici due contendent­i. Per smantellar­e ogni semplifica­zione si può fare un esempio che riguarda le strade, la viabilità regionale.

Da quando la Salerno-Reggio Calabria è diventata bella liscia, quasi del tutto priva di restringim­enti o cantieri, la vergogna autostrada­le italiana ha registrato uno smottament­o in direzione Sicilia, dove già la Messina-Palermo è un pianto, con cambi di carreggiat­a continui, cantieri deserti, manto stradale sconnesso anche dove sembra essere stato ripristina­to da poco. E la Palermo-Catania è messa anche peggio. Su quest’ultima arteria una notazione interessan­te riguarda le gallerie, che sono quasi tutte precedute da un cartello giallo con critto «Galleria non illuminata». Il fatto è che queste gallerie, invece, sono regolarmen­te illuminate. Nella maggior parte dei casi al massimo manca qualche lampadina, ma nel disastro contestual­e l’illuminazi­one delle gallerie è una delle poche cose almeno accettabil­i. Discorso che vale per tutte le gallerie tranne una, che è totalmente al buio. E dove però il cartello non c’è.

Se ne ricava che a presiedere a certe disfunzion­i siciliane non è sempre e solo il male o la stupidità. Ma spesso, invece, quell’ordine imperscrut­abile che per comodità ci viene da chiamare caos.

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