Corriere della Sera - La Lettura
Il Gattopardo ha torto Un’altra Sicilia è possibile
È come se dai crateri di Capaci e via D’Amelio si fosse sprigionato un gas radioattivo capace di mutare la mentalità dei cittadini. La via del riscatto è tortuosa, ma negare la svolta è malafede
Iluoghi comuni si suddividono grossomodo in due categorie: quelli veri, ferma restando la banalità, e quelli falsi, ferma restando la banalità. La precisazione è doverosa perché è passato il concetto secondo cui luogo comune uguale falsità, e fare uso di un cliché equivalga a mentire. Invece, per esempio, Non ci sono più le mezze stagioni è una banalità, ma è pure vero che si tende a passare senza troppi complimenti da estate a inverno. Si tratta di verificare caso per caso, e magari intanto evitare l’espressione per non risultare banali.
Il problema è tanto più sentito in Sicilia, regione che è diventata col tempo un estratto concentrato di luoghi comuni. A parte il ramo mafiologico, che meriterebbe una trattazione a parte, la maggioranza dei cliché riguarda Il Gattopardo, romanzo che non ha paragoni per la ricaduta d’immagine che ha avuto sul territorio, almeno nell’ultimo mezzo secolo. Sentir citare la frase «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» ormai suscita nei siciliani un fremito di sfinimento. Lo stesso aggettivo «gattopardesco» viene adoperato a capocchia un po’ in tutte le circostanze, proprio per sintetizzare quel famoso Se vogliamo eccetera, che pesa su quest’isola come una maledizione. Le parole si consumano, perdono il filo, come le lame. Per il termine gattopardesco ci vorrebbe forse un arrotino. Oppure una moratoria, un fermo biologico decretato per legge, che consenta di restituire senso a una parola ormai stremata. (Lo stesso discorso vale per l’altro aggettivo, irredimibile, pronunciato da Leonardo Sciascia e sistematicamente frainteso in seguito: lo scrittore di Racalmuto, in una intervista, lo adoperava con una sottigliezza problematica che i posteri hanno sterminato).
È risultato perfettamente inutile che molti abbiano dimostrato, testo alla mano, che Tomasi di Lampedusa scrivendo quella frase non aveva nessuna intenzione di fare l’elogio dell’immobilismo alla siciliana, apparentato con quel muoversi fermo che in certe provincie si adopera in apparente contraddizione interna. Il Gattopardo non è affatto l’elogio dell’anna- cata, termine che in dialetto indica il massimo movimento col minimo spostamento. Vuole semmai essere l’elogio dei Gattopardi e della loro passata grandezza al confronto con la moderna miseria, e non certo del gattopardismo nel senso che la vulgata in seguito ha sintetizzato come sinonimo di trasformismo. A pronunziare la famosa frase è Tancredi, personaggio che, malgrado il fascino di Alain Delon, suo interprete al cinema, nel romanzo non risulta per nulla simpatico, con tutto il suo fervente immobilismo.
Adagiarsi sui luoghi comuni è sempre controindicato. Ma qualcosa di più, una semplicistica malafede contraddistingue molti di coloro che a ogni pie’ sospinto adoperano la celebre frase o il termine gattopardesco. La parola stessa è diventata la comoda trincea dove si trovano asserragliati proprio i peggiori immobilisti. Ragionamento sottinteso: siccome bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga com’è, magari è vero pure il contrario, ossia che restando immobili prima o poi qualcosa cambierà davvero.
A parte ogni altra considerazione, non è affatto vero che la Sicilia risulta immobile nel tempo. Almeno dalle stragi del 1992 in poi è cambiato molto, addirittura nel Dna dei siciliani. Con il terremoto di Messina, nel 1908, dal sottosuolo si sprigionò una grossa quantità di gas radon che arrivò a modificare geneticamente i superstiti. I messinesi di oggi sono diversi da quelli dell’Ottocento, proprio nel Dna. Allo stesso modo è come se dai crateri di Capaci e via D’Amelio si fosse sprigionato un radon in grado di modificare la nostra forma mentis. Negare almeno questo cambiamento è malafede. Naturalmente la via del cambiamento non è un’autostrada. È una trazzera di campagna tortuosa e dissestata, che a volte sembra volersi avvolgere su se stessa o addirittura divergere. Ma sul lungo periodo la direzione è quella del cambiamento.
Semmai il problema è stabilire se la Sicilia stia cambiando in meglio o in peggio. L’isola è un continente molto variegato. Palermo, seppure con molte contraddizioni, sicuramente è migliorata (nell’epicentro il radon ha sortito mag- giore effetto). Il discorso forse cambia a livello regionale, dove l’autonomia speciale, volendo fare un bilancio sommario, non ha portato i benefici sperati dai padri costituenti: ed è ancora un benevolo eufemismo. Con una variante del già stigmatizzato luogo comune si potrebbe dire che il cambiamento è avvenuto a macchia di gattopardo, ossia in maniera allo stesso tempo sporadica e apparente.
In definitiva bisognerebbe riuscire a sottrarsi agli estremismi che riguardano la Sicilia, sempre ricondotta agli opposti correlati di ottimismo e pessimismo. Abbandonarsi allo sconforto è una tentazione frequente, di fronte alle disfunzioni. Ma nemmeno si può adottare acriticamente l’ottuso elogio della Sicilia come terra di magnificenza. Bene e Male combattono sull’isola una battaglia millenaria, e non è detto che siano gli unici due contendenti. Per smantellare ogni semplificazione si può fare un esempio che riguarda le strade, la viabilità regionale.
Da quando la Salerno-Reggio Calabria è diventata bella liscia, quasi del tutto priva di restringimenti o cantieri, la vergogna autostradale italiana ha registrato uno smottamento in direzione Sicilia, dove già la Messina-Palermo è un pianto, con cambi di carreggiata continui, cantieri deserti, manto stradale sconnesso anche dove sembra essere stato ripristinato da poco. E la Palermo-Catania è messa anche peggio. Su quest’ultima arteria una notazione interessante riguarda le gallerie, che sono quasi tutte precedute da un cartello giallo con critto «Galleria non illuminata». Il fatto è che queste gallerie, invece, sono regolarmente illuminate. Nella maggior parte dei casi al massimo manca qualche lampadina, ma nel disastro contestuale l’illuminazione delle gallerie è una delle poche cose almeno accettabili. Discorso che vale per tutte le gallerie tranne una, che è totalmente al buio. E dove però il cartello non c’è.
Se ne ricava che a presiedere a certe disfunzioni siciliane non è sempre e solo il male o la stupidità. Ma spesso, invece, quell’ordine imperscrutabile che per comodità ci viene da chiamare caos.