Corriere della Sera - La Lettura
La rivoluzione industriosa che arrivò dall’Oriente
Eurocentrismo addio
Scritto nel 1996 da Jack Goody, antropologo britannico scomparso nel 2015, capace di frequentare con geniale larghezza di vedute anche la letteratura di carattere storico, L’Oriente in Occidente. Una riscoperta delle civiltà orientali (traduzione di Asher Colombo, il Mulino, 1999) è forse il libro che più ha contribuito, negli ultimi lustri, a sollecitare una riconsiderazione della storia del mondo ispirata da una prospettiva alternativa a quella eurocentrica.
L’idea di fondo di Goody è semplice: se è vero che a partire dal tardo Settecento, e fino a gran parte del Novecento, l’Occidente ha dominato il globo, segnalandosi come interprete prevalente di un processo di modernizzazione che ha relegato ai margini l’Oriente, nel passato i rapporti di forza si declinavano altrimenti. A lungo, infatti, le civiltà orientali, piuttosto che come oggetto di svalutazione, si presentarono come una fonte di ammirazione, di invidia e di imitazione per il mondo occidentale. L’Asia offrì nei secoli all’Europa — in termini di saperi, tecniche, fruizione di beni materiali — molto più di quanto non ne ricevette in cambio.
Dall’intensificazione dei contatti tra i due continenti — ha argomentato nel 2008 lo storico olandese Jan de Vries nel libro The Industrious Revolution (Cambridge University Press) — sarebbe inoltre derivata quella che viene abitualmente considerata il simbolo della modernità occidentale, vale a dire la rivoluzione industriale. Essa venne, infatti, preceduta da una «rivoluzione industriosa» basata sulla modifica su larga scala delle abitudini di consumo da parte degli europei, nelle cui abitazioni, a partire dalla seconda metà del Seicento, cominciò a divenire abituale la presenza di beni lavorati provenienti dall’Oriente, dalle porcellane cinesi e giapponesi agli sgargianti tessuti di cotone e di lino indiani. Fu la sbiadita replica di questi beni nelle fabbriche occidentali a segnare l’avvio della grande trasformazione economica che proiettò l’Europa al vertice del mondo. Nel vasellame importato in grandi quantità dall’Oriente, gli europei si erano nel frattempo abituati a consumare tè e caffè, a mescolarlo con lo zucchero, e a farne la base della prima colazione dolce, un’innovazione che modificò radicalmente gli schemi alimentari sino a quel momento usuali.
Negli ultimi anni, in omaggio a una visione più attenta alla natura policentrica della storia del mondo, sono stati numerosi i libri che hanno affrontato il tema delle profonde interconnessioni tra le culture dei vari continenti, e in particolare dell’intenso interscambio tra Europa e Asia nel corso dell’età moderna. Fondamentale, a questo proposito, è un’opera come Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo, secoli XVIXVIII (a cura di Giuseppe Marcocci, Carocci, 2014), dello storico indiano Sanjay Subrahmanyam. Ma libri come Il commercio interculturale di Francesca Trivellato (Viella, 2016) e Indios, cinesi, falsari. Le storie del mondo nel Rinascimento di Giuseppe Marcocci (Laterza, 2016) mostrano ora come anche in Italia si sia formata una giovane generazione di studiosi capaci di confrontarsi con brillantezza e originalità con questa stimolante prospettiva.