Corriere della Sera - La Lettura
L’inflazione del comico
I politici si sono appropriati di una prerogativa non loro: far ridere Un ambito che ormai si è allargato a dismisura così come si è assottigliato il confine fra il risibile e il ridicolo E il meccanismo che alla fine vince è quello dell’imitazione Come d
Ridere per ridere per tre e quattordici. Esiste una formula (linguistica) del comico? Ovviamente no. Anche perché, come scriveva Umberto Eco, «il comico è una faccenda difficile: a capirlo si è risolto il problema dell’uomo sulla terra». E allora la domanda da porsi è forse diversa: qual è oggi il perimetro, la circonferenza, che delimita il comico? Nel saggio che apre un recente libro a più mani su Linguaggio e comicità, Emanuele Banfi parte da Plato- ne. Nel terzo libro della Repubblica, il filosofo greco giudicava negativamente il riso degli uomini a cui era affidata la difesa dello Stato: perché, ridendo, avrebbero rivelato l’incapacità di dominare sé stessi.
È una cosa pazzesca!
Eppure, è da molti anni che i nostri politici ridono tanto in pubblico e soprattutto cercano di far ridere; spesso rubando il mestiere agli stessi comici che li prendono in giro. Tanto che alla fine un comico ha deciso di rubare il mestiere ai politici.
Il terreno, d’altra parte, era ormai pronto. Dalle battute di Andreotti alle barzellette di Berlusconi, l’evoluzione è stata piuttosto rapida e i due linguaggi si sono sempre più avvicinati.
Il risultato è che i monologhi di Luciana Littizzetto e i comizi di Beppe Grillo usano le stesse strategie espressive. La deformazione dei nomi (da Eminems e Napisan a Renzie e Bersanetor), le espressioni in dialetto (da balengo a belìn), le similitudini iperboliche: «Come se volessero girare Lo squalo nella fontana di piazza Solferino», «come se Pacciani avesse detto “è ora di smetterla
con le merende”». Dai politicomici ai comicomizi.
Aricordate da ride
Nel frattempo, il confine tra risibile e ridicolo si è notevolmente assottigliato. Tanto che la vecchia battuta di Ennio Flaiano per cui «la situazione politica in Italia è grave, ma non è seria» non suona più come una battuta, ma come una constatazione. Venticinque anni fa — Tangentopoli era alle porte — Marino Sinibaldi vedeva nel dilagare della risata facile «un pericolo assai serio: quello di un cinismo puramente dissolutore, una sorta di nichilismo ridens, che contribuisce ad allentare ogni vincolo collettivo». Oggi, complici anche internet e i social network, la comicità è diventata ubiqua. Permea di sé tutta la comunicazione. Invade le nostre vite, ripetendo all’infinito parole e frasi pensate per farci ridere: quelli che in gergo si chiamano «tormentoni». (Il tormentone, va detto, è la vera icona linguistica della nostra epoca: gli slogan politici vengono ripetuti a oltranza, con la stessa ossessività di quelli pubblicitari; le frasi fatte ritornano nei discorsi con la stessa ostinata frequenza dei ritornelli da canzonetta).
Ogni messaggio mediatico sembra volerci fare il solletico. Ma la verità è che ridiamo sempre meno. «Aricordate da ride», recitava — come un meme/memento — la scritta tracciata qualche anno fa su un muro del quartiere Prati, a Roma. L’inflazione del comico ha alzato la soglia della risata.
La commedia delle lingue
«L’umorista entra in un negozio di cereali: “Avete riso?”. “Sì”. “Allora l’effetto è raggiunto”». Per l’Achille Campanile delle Tragedie in due battute tutto sembrava molto naturale. Così ridevano. E invece oggi farci ridere
Il è diventato molto più difficile. Quasi che le eterne tecniche del comico abbiano finito per invecchiare improvvisamente.
Come il gusto per la commistione linguistica che ci viene dalla tradizione maccheronica e dalla commedia dell’arte. Quello che la Sora Cesira recupera nei suoi rifacimenti musicali, spaziando dal latinorum dei Carmina burina all’inglesorum delle Arcore’s nights (« now the girls with no sold / say you’re flaccid and old ») fino allo
pseudo-portoghese dell’Ici de Mario o all’italo-francese dell’Italie meuf a cagarre.
Come il comico cozzare di alto e basso che va dall’opera buffa fino alle grandi parodie di Topolino. E si ritrova ancora nelle anacronistiche terzine dantesche di Maurizio Lastrico, già ospite dello Zelig e autore del libro Nel
mezzo del casin di nostra vita. «Arranco con tremor di polsi e vene/ ma ’n petto il cor spossato mi dimanda / perché stai ancora qui testa di pene / ma il trainer neandertale mi dimanda / d’andare a spinningar su fissa bici». Travestimenti anticheggianti e perifrasi eufemistiche, come già nel pugnare o nel prendersi per le natiche di Brancaleone da Norcia; accostamenti eroicomici tra arcaismi e parolacce, come già per la pulzella e le putta
ne di De André e Villaggio.
Vedi alla voce Fantozzi
Già: Paolo Villaggio. Impossibile, in questi giorni, parlare della lingua del comico senza pensare alla lingua di Fantozzi. La lingua «felpata» per la sete o l’emozione. La lingua penzolante fino al petto nello sforzo «mostruoso» della gara ciclistica. La lingua arrotolata con le mani dopo aver assaggiato i pomodorini «palla di fuoco a 18 mila gradi». Una lingua che si fa beffardamente concreta, sempre deformata in una smorfia che ricorda quella delle antiche maschere comiche.
E infatti — anche grazie al suo italiano fatto di espressioni burocratiche e congiuntivi sbagliati, di epiteti reiterati e aggettivi reboanti — Fantozzi è l’ultima grande maschera della nostra tradizione comica. L’ultima ad aver trasformato la voce di un personaggio ( La voce di
Fantozzi s’intitola l’ultimo film che Villaggio stava girando) in una voce di dizionario. «Fantozzi: sostantivo maschile invariabile. Per antonomasia. Figura di impiegato di modesta qualificazione professionale, perennemente frustrato e inadeguato alle situazioni della vita».
«Dicesi antonomasia …», avrebbe balbettato il ragionier Ugo con la sua voce inconfondibile, arrabattandosi in una improbabile definizione. Un po’ come Totò, che cadeva in grossolani strafalcioni linguistici, ma poi si avventurava in fantasiose spiegazioni etimologiche e grammaticali: «Il funzionario civico municipale è un aggettivo qualificativo di genere funzionatorio».
Riso avaro
Ma intanto anche i vadi ei facci di Totò e Fantozzi sono passati dalle comiche alle cronache. Fanno parte del bagagliaio culturale (come amava dire Ezio Greggio) di molti politici. Al punto che è difficile distinguere i testi di Crozza da quelli di Razzi. E più in generale, per chi vuole strappare una risata, è difficile sottrarsi al meccanismo dell’imitazione: alla scorciatoia della somiglianza.
Non ci resta che fingere, sembra essere il motto: fingersi qualcun altro, giocando sull’effetto facile del falsetto. Una versione edulcorata di quel falso parodistico sui cui puntava — in un’altra epoca — la feroce satira del «Male». Oggi — in epoca di autentiche fake news — il falso viene spesso preso sul serio, mentre a far ridere è il vero: è la caduta dei ricchi, la gaffe degli eletti, l’infortunio dei famosi. È così che la risata sogna ancora di seppellire i potenti. Con questo riso avaro, livido di rancore.