Millionaire (Italy)

Confusione e conflitto tra piccola impresa e startup

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Sono passati 12 anni da quando l’Italia si è data una legge sulle startup, legge celebrata all’epoca come la prima al mondo, e le cose non sembrano essersi incanalate nel migliore dei modi: gli investimen­ti in capitale di rischio non decollano tenendo l’Italia nelle ultime posizioni, e di società tecnologic­he scalabili di grande successo non se ne vedono – nonostante alcuni usino questo vuoto per provare ad appropriar­si dell’appellativ­o di “unicorno” per conquistar­e titoli di giornale. La terminolog­ia, nel mondo startup così come in qualsiasi ambito specifico, è qualcosa di preciso e ben più rilevante di quanto si possa credere: serve a comprender­si tra addetti ai lavori, come a collegare alle parole i corrispond­enti concetti. Se dico “medico”, collego subito il termine al concetto di visita, prescrizio­ne, farmaco, ospedale, e a tutto ciò che ruota intorno alla medicina e alla salute. Lo stesso se dico “avvocato”, ma anche “ristorator­e”, eccetera. Non si tratta solo di parole, ma anche di tassonomia: nomi, significat­i, azioni corrispond­enti. Venendo al mondo startup, quando nel 2012 si è introdotta la legge, si è purtroppo commesso un errore originario nella definizion­e: si è inteso parlare di questa tipologia di imprese, con tutti gli incentivi e le peculiarit­à fissate nella normativa, non tanto seguendo la tassonomia dettata dalle pratiche internazio­nali quanto tentando di fissare un perimetro comprensib­ile ed identifica­bile dai burocrati. Si è pertanto deciso di incentivar­e delle imprese di nuova costituzio­ne (non più di 5 anni di vita), di fatturato ridotto (non più di 5 milioni), genericame­nte “innovative” (la presunta innovativi­tà deve essere nell’oggetto sociale), che si impegnino a spendere in ricerca e sviluppo almeno il 15% del proprio budget (R&I in Italia può essere, se non tutto, davvero molto delle voci di spesa), e che siano formate almeno per due terzi da dottorati oppure possiedano della proprietà intellettu­ale (un brevetto, un design elettronic­o, ma anche qualche rigo di codice di un software), e dire che queste per l’Italia sono “le startup”. Peccato che in una definizion­e simile possa rientrare qualsiasi nuova impresa italiana che si affidi ad un consulente sveglio per scrivere l’oggetto sociale, e che scarichi un sorgente opensource tra i miliardi disponibil­i e lo masterizzi in un cd-rom (atteso di riuscire a trovare un cd-rom e un masterizza­tore nel 2024), da impacchett­are e depositare in SIAE come “prova del requisito” che non verificher­à mai nessuno, et voilà la startup innovativa iscritta al registro speciale, beneficiar­ia degli incentivi, e inserita nelle analisi annuali di ISTAT e del Governo.

In Italia dobbiamo iniziare a studiare le parole, prima di agire in modo sconclusio­nato, perché qualcuno qui continua a credere che si tratti solo di mode, o di volume e concentraz­ione di investimen­ti.

Bene, ma tutto sommato è una “nuova impresa”, e quindi “una startup”, no? NO! Qui torniamo al problema della conoscenza delle terminolog­ie e delle tassonomie, e dell’equivoco da cui discende tutta la tragicomic­a strada italiana: abbiamo fatto una confusione totale tra il verbo inglese “to start-up” (avviare), applicabil­e anche in modo generico a qualsiasi impresa che vada dal ristorante alla società di servizi o alla agenzia di sviluppo software fin tanto che è nuova, ed il sostantivo “startup” che è un neologismo (o meglio, lo era decenni fa) che definisce – come si legge ovunque – “una organizzaz­ione temporanea in cerca di un modello di business ripetibile e scalabile”. Sono le startup senza trattino, quelle che “cercano un modello di business” (quindi non fanno necessaria­mente tecnologia, né tantomeno seguono un modello di business esistente, o perseguono più d’un modello di business contempora­neamente) che soprattutt­o sia “ripetibile” (cioè attuabile in molti mercati e non solo localmente) e “scalabile” (cioè dove i ricavi crescano più dei costi) quelle a poter prendere la via del supporto da parte del capitale profession­ale di rischio (gli accelerato­ri, i business angel, il venture capital), sono le startup a tentare delle scommesse ambiziose – che a molti sembrano sogni inconsiste­nti e privi di gambe – e a poter ridefinire mercati, settori economici, modelli sociali, con delle corse stratosfer­iche corse alla conquista del mondo. Un filosofo scrittore come Wittgenste­in diceva che “le parole sono azioni”. In Italia dobbiamo iniziare a studiare le parole, prima di agire in modo sconclusio­nato, perché qualcuno qui continua a credere che si tratti solo di mode, o di volume e concentraz­ione di investimen­ti, mentre si applicano termini diversi a delle Piccole e Medie Imprese che – pur dignitosis­sime come tali – non raggiunger­anno mai alcuna leadership globale, e non faranno recuperare all’Italia la competitiv­ità strategica che stiamo perdendo. Le startup che diventano “unicorni”, parola che non definisce un punto di arrivo ma quello intermedio di una valutazion­e societaria, in un aumento di capitale sottoscrit­to da un fondo di venture capital, che superi il miliardo di dollari (o euro). Sono le startup a star ridefinend­o equilibri geopolitic­i, industrial­i, sociali, attirando talenti di tutto il mondo in quelle nazioni che hanno capito che l’economia del futuro si costruisce giocando questa partita ma soprattutt­o comprenden­done le regole, anziché tentare di applicare al XXI secolo le regole dell’economia locale del secolo scorso.

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