Com’è possibile morire di precariato?
UN TRENTENNE FRIULANO SI È SUICIDATO E HA LASCIATO UNA LETTERA DI DENUNCIA VERSO LA SOCIETÀ
La mancanza di un lavoro che potrebbe consentire a una persona giovane di realizzarsi, di esprimersi, di rendersi economicamente autonoma dai suoi familiari, può certamente essere la causa scatenante di tanti disagi psicologici, malesseri e depressioni. Oltre che della fuga di tanti giovani che, nei propri Paesi di origine - come anche nel nostro - non hanno trovato riconoscimento ai loro studi, alle loro ricerche, fatiche, aspettative, aspirazioni. Così, quando un giovane, come il trentenne friulano Michele, arriva a suicidarsi, scrivendo prima di morire una lettera di denuncia e di accusa nei confronti della comunità umana e della società in cui è vissuto, a suo dire colpevoli di averlo deluso, negato e «derubato della felicità», quel “male di vivere”, comu-
ne a tanti giovani - e non solo - viene pericolosamente “sdoganato”. Pericolosa
mente perché costituisce il tragico esempio di darsi la morte per denunciare, senza
combattere fino in fondo e superare le tante inevitabili asprezze, difficoltà, delusioni della vita. O come nel caso di Michele, anche per affermare una propria velleitaria visione del mondo e reclamare, con ingenuità, un diritto alla felicità che nessun destino, individuale e collettivo può garantire agli esseri umani. Se non come splendida, necessaria utopia. Si tratta, pertanto, di un modo distruttivo di porre fine a sofferenze, ingiustizie, illegalità che, invece, possono essere affrontate, trasformate, debellate, solo se gli esseri umani si alleano e combattono insieme, nel microcosmo come nel macrocosmo, per attivare benessere e salute mentale. E, soprattutto, per
fare “prevenzione” del dolore, del disagio, del malessere, all’interno delle due fondamentali agenzie educative di ogni umana società: famiglia
e scuola. Per non consentire alla paura, alla delusione, alla sfiducia, all’angoscia di morte e alla solitudine di far prevalere la distruttività.