EDITORIALE
LA LETTERA DI UNA LETTRICE CHE PIANGE IL FRATELLO SCOMPARSO. E LE OCCASIONI PERDUTE
Questa settimana voglio lasciare spazio a una lettera che parla di famiglia, di liti, di distanze, di testardaggine. Di gioia e di dolore. E di occasioni d’amore e d’affetto che a volte lasciamo per strada. Con un milione di rimpianti, dopo, quando è troppo tardi. Me l’ha scritta la lettrice Elisabetta. Eccola.
Gentile direttore, non so neanch’io perché le scrivo questa lettera, ma è notte, e in lei riconosco una umanità che mi permette di non temere indifferenza. Sono passati due anni dalla morte (quanto mi costa scrivere questa parola) di mio fratello, col quale ho tanto litigato e che tanto amo. Era un medico pediatra, bravo, intelligente e bello. Aveva solo 67 anni ed era stato colpito da una rara forma di leucemia che, controllata, poteva farlo vivere ancora molti anni. E invece gli anni sono stati pochi e improvvisamente, in due mesi, tutto è finito. Tutto finito, e io voglio tornare indietro. Non avevo capito niente. Pensavo esagerasse, come fanno i medici quando si tratta della loro salute. Non ha mai dato, con noi sorelle, un nome alla sua malattia. E poi faceva mille progetti, litigavamo ancora come ragazzi a ogni provocazione.
Sono due anni che rivivo la nostra fanciullezza e giovinezza. Da quando, bambini, ce le davamo di santa ragione. Da quando, da ragazzi, ci buttavamo per terra dal gran ridere. Da quando prendeva sulle spalle il mio primo figlio, di quattro-cinque mesi, e al semaforo rosso bussava al finestrino di un autobus e il passeggero che si girava vedeva solo la faccia di un lattante inconsapevole. O quando, una sera, da studenti, raccogliemmo una trentina di persone in Piazza del Popolo arringando contro Pippo Baudo, che a malapena conoscevamo. Eravamo dei Giamburrasca cresciuti e velleitari. Cercavamo e trovavamo l’assurdo in tutto, e su questo assurdo costruivamo la nostra vita. Che infatti è rimasta una vita da alieni e anche un po’ asociali. Quanto ci siamo divertiti senza bisogno di sballi! Chi ha mai pensato di farsi una canna!
Poi, certo, la vita ci ha un po’ divisi e le litigate diventavano epiche. Ci cacciavamo da casa a vicenda, ma poi, dopo qualche giorno, tornava tutto come prima. Dimenticavamo, nel vero senso della parola, di essere in lite e ci divertivamo ancora a essere d’accordo sulla politica, sulla morale. Esploravamo il senso della vita e subito dopo litigavamo furiosamente per assurdità alle quali nessuno credeva.
Mi scusi, direttore, so di annoiarla, ma forse lei può dirmi come perdonare me stessa delle volte in cui sono stata insopportabile, delle volte che ho detto «non gli parlo più», ma soprattutto di non aver capito che poteva morire. E come perdonare mia sorella che molto mi ha nascosto, e perdonare lui per essere andato via così, semplicemente, senza che i fulmini mi incenerissero, senza che mi scoppiasse il petto, senza che tutto intorno urlasse di dolore. Lo so che è così per tutti, ma ci lasciamo prendere dal turbinio dei giorni e all’improvviso non ci resta che la zavorra. Quante volte non gli ho telefonato? Quante volte mi sono dimenticata del suo compleanno? Perché non gli ho mai detto quanto lo stimassi? E ora mi sembra di aver buttato una parte della mia vita. Vorrei scrivere la nostra storia, per cercare di guarire, raccontare e raccontarmi per i figli, ma il pudore dei sentimenti e dei fatti mi frena. Parlerei di una persona a loro sconosciuta e forse sembrerei un po’ deficiente. Mi scusi ancora. Salutandola le mando un sorriso dal profondo del cuore. Elisabetta
Cara Elisabetta, scriva, scriva (perché lei sa scrivere), per i suoi figli e i suoi nipoti, per la memoria di suo fratello. E sia più indulgente con se stessa, se ce la fa. Perché la vostra è una bella storia, di vita vera e vissuta, e di autentico amore fraterno. E perché tutti dovremmo imparare a guardare avanti, senza dimenticare il passato ma nello stesso tempo senza permettere che diventi, come dice lei, una zavorra. Le mongolfiere volano solo quando la zavorra viene lasciata andare…