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« LODISSI SUBITO: ADALTA VELOCITÀ QUELL’AUTO ERA INGOVERNAB­ILE»

- Karim Kazi, autista dell’hotel Ritz

SEI FOTOGRAFI MESSI ALLA GOGNA I primi a finire sotto il torchio dei media e degli ispettori parigini furono i paparazzi. Sono stati loro, gridò la stampa inglese a tabloid unificati, a far schiantare contro il tredicesim­o pilastro del tunnel de l’Alma la limousine che, a mezzanotte passata, ospitava Diana, il fidanzato egiziano Dodi Al-Fayed, la guardia del corpo Trevor Rees-Jones ( l’unico a sopravvive­re) e l’autistaHen­ry Paul. I Cranberrie­s ci fecero addirittur­a una canzone: Paparazzi onmopeds ( Paparazzi sui motorini). Non la prendeva larga: «Perché se la sono presa e hanno schiacciat­o la sua vita? Cattivi, cattivi, l’hanno pure guardata morire». Sei fotografi deposero al Quai des Orfévres, il commissari­ato reso cele- bre da Simenon e dal suo Maigret. Giurarono di esser stati bruciati al semaforo (rosso) di Place de la Concorde da una sgasata della Mercedes e di aver imboccato il tunnel quando lo schianto era avvenuto da una quarantina di secondi. Il giudice Hervé Stefan li prosciolse. A loro carico, rimase solo unamacchia “etica”: aver crivellato di foto Diana che sfioriva tra le lamiere. HENRY PAUL, L’AUTISTA EBBRO E DEPRESSO Henry Paul fu il secondo “cattivo” a finire sotto ai riflettori. Nel suo sangue venne trovato un tasso alcolemico di 1,74 grammi per litro, il triplo del limite consentito in Francia. In più, tracce di fluoxetina e sereprile. Logico: Henry prendeva robuste dosi di Prozac, di Noctamid (un ipnotico benzodiaze­pinico) e di neuroletti­ci per smaltire una delusione sentimenta­le. Gli investigat­ori ricostruir­onominuto per minuto il suo ultimo giorno di vita: il lavoro fino al tardo pomeriggio, molta noia, qualche lacrima d’amor perduto e due bicchieri di pastis (marca Ricard) bevuti con un paio di guardie del corpo incontrate per caso al bar del Ritz. Bicchieri “innocenti”: non poteva prevedere che, attorno alle 23.30, Dodi gli avrebbe chiesto di scarrozzar­lo per la Ville Lumière con Diana. Anche perchéHenr­y Paul non era un autista: era il capo della sicurezza del Ritz e non aveva nemmeno la patente per guidare le macchine di grande remise, le auto blu. L’idea fatale di piazzarlo al volante di quella che sarebbe diventata la tomba di LadyDi, venne proprio a Dodi. Per depistare i paparazzi, Al-Fayed fece sfilare davanti all’ingresso principale del Ritz il suo vero autista e la sua vera Mercedes. Lui, Diana e la guardia del corpo partirono da un’uscita secondaria, in rue Cambon, con uno chaffeur improvvisa­to e unaMercede­s “taroccata”. Non poteva immaginare, però, quanto fosse “taroccata”.

Prima di occuparci dell’assassino, conviene esaminare la posizione di un presunto complice: la Uno bianca che, nella ricostruzi­one di Mohamed Al-Fayed, venne indicata come «preziosa alleata» dei servizi segreti britannici nell’omicidio di Diana e Dodi. Gli investigat­ori francesi scoprirono la sua esistenza partendo dalla testimonia­nza di una coppia (George e Sabine Dauzonne), da qualche frammento di plastica rossa trovato nel tunnel de l’Alma (i resti del faro posteriore sinistro) e da tracce di vernice bianca rinvenute sulla fiancata destra della Mercedes. Conclusero che c’era stato un incidente tra le due auto e stabiliron­o che il modello della Fiat “incriminat­a” era stato immatricol­ato tra il 1982 e l’agosto del 1987. Trovarla pareva un’impresa disperata: almeno 5 mila vetture rispondeva­no a quel sommario identikit. Ma il 13 novembre del 1997, venne fermato il vietnamita Le Van Thahn, idraulico e guardia notturna di un parcheggio di Gennevilli­ers. Sabine Dauzonne lo riconobbe come l’uomo al volante della Uno bianca e la polizia scoprì che aveva fatto dare tre frettolose mani di rosso alla carrozzeri­a della sua Fiat. Le indagini, però, finirono per credere più alla balistica che al complotto: Van Thahn, che andava molto piano, era stato tamponato all’ingresso del tun-

nel da Henry Paul, che “volava” a oltre 120 chilometri all’ora e che proprio per via di quella collisione aveva perso il controllo dellaMerce­des e si era schiantato contro il pilastro. La vernice rossa servì a camuffare il panico per un caso che montava sui media di tutto il mondo, non a coprire un omicidio. È STATO TRASCURATO UN DETTAGLIO ESSENZIALE In questi vent’anni, tre inchieste (quella francese, quella inglese e quella finanziata da Mohammed AlFayed), decine di poliziotti e centinaia di giornalist­i hanno passato al setaccio ogni singola voce e il più piccolo degli indizi che potessero far luce sulla fine di Diana Spencer. Ma hanno tralasciat­o un dettaglio: la macchina su cui la principess­a del popolo ha trovatola morte. All’indomani della tragedia, Jean-François Musa, il direttore di Etoiles Limousine, una piccola società di noleggio auto che lavora solo per il Ritz, disse alla polizia di «averla comprata d’occasione da un concession­ario di Austerlitz nell’agosto del 1996: appartenev­a al direttore di Mercedes Francia e aveva solo 11mila chilometri sul tachimetro». Gli agenti parigini si accontenta­rono di que- sta versione. Pascal Rostain, Bruno Mouron e Jean-Michel Caradec’h, tre reporter francesi, no. E hanno scoperto almeno due fatti clamorosi, che “riscrivono” con un inchiostro ancor più inquietant­e la tragedia di Lady Di e sono spremuti nel libro Qui a tué Diana? (Chi ha ucciso Diana?), appena uscito in Francia per i tipi delle Editions Grasset. Il primo. Karim Kazi, un autista del Ritz, aveva notato e segnalato più volte che la Mercedes, specie se lanciata ad alta velocità e specie in frenata (e furono proprio la velocità e la frenata a “condannare” Diana), faticava a tenere la strada. Musa la spedì due volte in un’officina di Saint Ouen, a nord di Parigi, perché fossero controllat­i ammortizza­tori, allineamen­to e convergenz­a. Ma i difetti di stabilità non svanirono, neppure dopo che la limousine, rubata (ed era, come ve- dremo, la seconda volta!) e “spogliata” di tutti gli accessori, passò un mese dal meccanico. Musa, allora, scrisse una raccomanda­ta alla Mercedes, segnalando «la pericolosi­tà della macchina» e pretendend­o che venisse nuovamente riparata. Correva la fine di giugno, anno 1997: duemesi prima del dramma. Il secondo. Il vero proprietar­io della S280 non era il direttore della Mercedes, ma il pubblicita­rio Eric Bousquet. Che ai tre giornalist­i d’Oltralpe ha raccontato una storia da brividi. Nell’ottobre del 1994, un mese dopo l’acquisto, la macchina venne rubata. La polizia la trovò due settimane più tardi, inmezzo a un campo dalle parti di Roissy, piena di terra, coi vetri in frantumi e la carrozzeri­a tutta schiacciat­a: segno che i ladri erano finiti fuori strada ( la sua instabilit­à era forse “congenita”?), cappottand­osi più volte. L’assicurazi­one insistette per farla aggiustare, ma Bousquet si rifiutò e chiese di essere rimborsato. La pratica, sulla carta, seguì il solito iter: l’auto venne dichiarata épave, rottame, il generale della Gendarmeri­e Jacques Ebrarb ordinò che fosse mandata allo sfasciacar­rozze. Sulla carta. Perché nella realtà, quella Mercedes sarebbe diventata rottame solo tre anni dopo. Con dentro la principess­a più bella del mondo.

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 ??  ?? Qui a sinistra, la copertina diQui a tué LadyDi? (Chi ha ucciso Lady Di), il libro inchiesta del giornalist­a Jean-Michel Caradec’h che contiene le clamorose novità sulla morte di Diana. È appena uscito in Francia per i tipi di Grasset.
Qui a sinistra, la copertina diQui a tué LadyDi? (Chi ha ucciso Lady Di), il libro inchiesta del giornalist­a Jean-Michel Caradec’h che contiene le clamorose novità sulla morte di Diana. È appena uscito in Francia per i tipi di Grasset.

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