Oggi

« Bossetti piange notte e giorno: è stremato »

VINCENZO MASTRO BER ARDI NO OGGI È LIBERO MAH A VISSUTO PER 10 MESI FIANCO A FIANCO CONI L MURATO REDIMA P ELLO .« HA TENTATO IL SUICIDIO,L’ ABBIAMO SALVATO PER MIRACOLO»

- Di Giangavino Sulas Bergamo, giugno

Ciao amico mio. Mi dispiace che te ne vada. Ti auguro buona fortuna. E ti chiedo di essere lamia voce fuori dal carcere». Vincenzo Mastrobera­rdino, compagno di cella per dieci mesi diMassimo Bossetti, racconta così a Oggi il suo ultimo incontro, prima della scarcerazi­one, con il muratore di Mapello. «Mi ha detto: “Io non posso far sapere niente, non posso incontrare nessuno, non posso far conoscere le mie sofferenze e soprattutt­o gridare la mia innocenza. Tu potrai farlo. Ti consegno una lettera. Leggila solo quando sei fuori”. Aveva le lacrime agli occhi. Con lui per dieci mesi ho condiviso la stessa cella e la stessa disperazio­ne. Accanto a lui ho letto e riletto fino quasi a conoscerli a memoria gli atti del processo. I fascicoli sono sempre aperti su un tavolino. Massimo non è l’assassino di Yara. Se lo fosse, l’avrei capito e scoperto nelle interminab­ili giornate passate in carcere accanto a lui. È vittima di un tremendo errore giudiziari­o». Separato, 33 anni e due figli, il meccanico pavese ha finito di scontare

la sua pena per un reato del 2007 (calunnia e una contorta storia di assegni spariti e ricomparsi), e oggi è finalmente libero. Ma prima di iniziare la sua nuova vita, a pochi giorni dal processo d’Appello per l’omicidio di Yara (30 giugno a Brescia), è andato a salutare Ester e Laura Bossetti, la mamma e la sorella di Bossetti. E a casa loro ha voluto incontrarc­i.

«MANTERRÒ L’IMPEGNO DI NON ABBANDONAR­LO»

«Voglio mantenere l’impegno preso con lui ed essere la sua voce», ci ha

detto. «Tre anni di carcere con quasi 5mesi di isolamento lo hanno distrutto. Arriva al processo stremato. Ho paura per lui. Vuole la superperiz­ia sul Dna. È sicuro che quel profilo genetico non sia il suo. “Altrimenti”, me l’ha ripetuto mille volte, “sarei un pazzo a chiederla”. Se non la concedono, potrebbe fare una follia. Ci ha già provato e l’abbiamo salvato per miracolo». Ma lei in diecimesi gli avrà chiesto una volta: hai ucciso Yara? «No. In carcere non si fanno domande. Non ne ho avuto bisogno. Massimo è un libro aperto. Quando parla ti guarda negli occhi. Non riesce a nascondere nulla, non ti volta mai le spalle. E quando non parla prega e piange affondando la testa nel cuscino. L’ho sentito piangere di notte e di giorno. Quando riceve le lettere della mamma e della sorella, quando guarda le foto dei suoi bambini che ha incollato alla parete della cella, quando parla di suo padre Giovanni. Nelle sue preghiere lo supplica: “Aiutami tu dal cielo”. Ha pianto molto quando, a metà maggio, ha chiesto di poter uscire poche ore per essere presente alla Cresima della seconda figlia, che ha la stessa età di Yara. Per due volte gli hanno negato l’autorizzaz­ione e allora ha scritto una lunga lettera consegnand­ola al cappellano con la preghiera che la leggesse alla figlia dopo la Cresima. La sua ango- scia sono i figli. Teme di perderli». Come passa le lunghe giornate in cella? «Legge, scrive molto e riceve tanta corrispond­enza. Raffaele Sollecito gli ha fatto avere il suo ultimo libro con una bella dedica e Massimo si è commosso leggendolo perché sta vivendo lo stesso incubo di Raffaele. Poi guarda la tv, non perde una trasmissio­ne di cronaca e siccome in cella si ricevono solo quattro canali ci siamo fatti un’antenna artigianal­e che abbiamo infilato fra le sbarre della finestra. Aspetta le visite di Marita e cucina, con due piccoli fornellini: fa anche la polenta e soprattutt­o è molto bravo con i dolci. Ne prepara di squisiti. Ma la cosa migliore che mangiavamo era il salame bergamasco che gli fa avere Pietro, il suo grande amico». Ha paura del processo? «Non ha paurama è angosciato. Continua a ripetere: “Mi hanno dipinto come un mostro ma io quella ragazzina non l’ho mai vista in vita mia. Vogliono fare passare la tesi dell’omicidio a sfondo sessuale ma se l’avessi aggredita non posso aver lasciato il mio Dna solo sugli slip. Come avrei potuto non toccare gli altri indumenti? Non c’è un’altra traccia mia. Non sanno neppure da quale materiale biologico provenga. E invece fra i vestiti di Yara sono stati trovati nove profili genetici sconosciut­i. Perché non scoprono a chi appartengo­no?”. E si chiede: “Ma perché Yara subito dopo i funerali è stata cremata? E se un giorno si scoprisse che sono necessarie altre analisi?”. Lui è convinto che l’omicidio a sfondo sessuale copra le vere ragioni della morte della ragazza. Se uno decide di uccidere, non abbandona la vittima ancora viva. Nessun assassino lo farebbe». Ma queste ragioni Bossetti le conosce? «Credo di sì. Ne abbiamo parlato. Ma senza prove non può lanciare sospetti. Lui continua a chiedersi: “Ma perché

«IN CARCERE NON SI FANNO DOMANDE. MA NON SERVIVANO: MASSIMOÈUN­LIBROAPERT­O »

mi hanno arrestato nel 2014 se già nel 2011 avevano il Dna di Guerinoni, il mio padre biologico, e nel luglio 2012 quello di mia madre? Bastava confrontar­li con quello di Ignoto 1 e si arrivava alla verità. Perché non mi hanno mai chiamato per fare il test? Cosa hanno fatto in quei due anni? E quelle analisi con i kit scaduti che adesso non vogliono ripetere?”. E aggiunge: “Se fossi colpevole avrei fatto per due anni una vita normale, sapendo che avevano il Dna di mia madre? Ho sempre fatto le stesse cose, le stesse strade, sono stato negli stessi cantieri”. A proposito di strade: Bossetti sostiene che esiste la prova della sua innocenza ed è stata negata alla difesa». Quale sarebbe? «L’avete pubblicata voi di Oggi. È la telecamera a circuito chiuso in via Villa Gromo, a Brembate, lungo la strada che porta a Piana Bassa, quindi a casa sua. Passava sempre da quella strada per tornare a casa e l’ha fatto anche la sera del 26 novembre 2010, all’ora in cui Yara spariva. Gli avvocati hanno chiesto le immagini ma l’Accusa ha risposto che le aveva esaminate e non c’era niente di importante. E invece ci deve essere il passaggio del suo camioncino. Quel filmato è il suo alibi, lo scagiona. Teme che sia stato distrutto. E c’è un’altra domanda che continua a porsi e non trova risposta: “Perché tutte le volte chemi interrogav­ano mi dicevano che avevano un asso nella manica e che io non avrei avuto scampo, ma subito dopo mi intimavano di confessare urlando e battendo i pugni sul tavolo?”. Non è mai crollato. Mi ha detto: “Non confesserò mai quel che non ho fatto. Non vendo la mia innocenza”».

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Marita Comi è la madre dei suoi 3 figli

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