Cosa ha portato Marco Prato a togliersi lavita?
UNO DEI DUE COINVOLTI NELL’ OMICIDIO VARANI SI È SUICIDATO IN CARCERE ALLA VIGILIA DELLE UDIENZE
Marco Prato, suicidandosi, hagiustiziato se stesso con l’intento, però, di farsi vittima, dopo essere stato complice e carnefice. Forseperquesto ha lasciato scritto: «Il suicidio non è un atto di coraggio né di codardia. Il suicidio è una malattia da cui “nonsempre” si guarisce». Dando così al suo suicidio l’imprinting di un dolore, di una voglia di morire che patologicamente lo assediavano anche prima di commettere, con Foffo, l’odioso crimine di torturare e uccidere Luca Varani. E, anzi, anche prima di ricercare con quell’amico amante - tra droga, perversione e follia -qualcuno da uccidere. Proprio per incontrare la morte nella sofferenza di un altro essere umano. Vero è, poi, che essere indagati, processati, giudicati e condannati per leproprieazioni - secosì gravi e patologiche - co- stituisce un iter stressante, dolorosissimo e umiliante. Soprattuttose si è sottoposti a un’invadente pressione mediatica. Insomma, si tratta di una “tortura” che il sociale, ovvero la comunità degli altri inorridita da un crimine così atroce, infliggeal torturatore. E lapressioneè a tal punto insopportabile che sottrarsene, col suicidio, può finire con l’essere una liberatoria necessità. Come dire che chi si suicida, per sottrarsi al peso delle responsabilità per errori o atrocità commessi - anche qualora, come Marco Prato ha sostenuto, fosse stato soltanto uno spettatore passivo di abuso, violenza, morte - sceglie la facilestradadi non “espiare” per il delitto commesso. E di non indagarne e scoprirne, come nel Delitto e Castigo di Dostoevskij, le motivazioni profondeche lo hanno determinato.