Oggi

«Ritorno in Maremma»

- di Giuseppina Lamioni Cesano Maderno (MB)

Babbo era par tito dal suo paesi no mar emmano richiamato alle armi il 3 giugno del 1940 in una calda giornata di fine primavera, 10 giorni prima del suo 26° compleanno. Era già stato in guerra. Dopo un anno di militare come soldato di leva, era partito dal porto di Livorno per l’Albania nel 1935; congedato e tornato a casa, viveva tranquillo del suo lavoro di bracciante agricolo in quel paesino della Maremma bruciato dal sole e lambito dal vento dimare. Ma il destino aveva in serbo per lui nuovi e inaspettat­i disegni. Grosse nuvole nere, cariche di tristi presagi, si addensavan­o all’orizzonte della nostra Nazione alleata nella Seconda guerra mondiale con laGermania e nemica dell’Inghilterr­a. Ma lui, come tanti altri, poco più che ventenni, non sapeva molto di quello che la storia ci avrebbe poi raccontato. Era bello, alto, biondo e con gli occhi azzurri trasparent­i come l’acqua del Tirreno, quando si presentò ancora una volta al distrettom­ilitare di Livorno, come era scritto nella cartolina di richiamo alle armi e come aveva già fatto la prima volta! Partenza immediata, imbarco e destinazio­ne… Africa. Sbarco a Bengasi con un lungo trasferime­nto in camionetta verso la Cirenaica e poi la destinazio­ne finale in pieno deserto del Sahara, nell’Oasi di Giarabub, a circa 300 chilometri dalla costa libica. Dapprima, il suo battaglion­e fu dislocato intorno all’oasi come contingent­e di difesa poi, quando l’esercito inglese avanzò e si fece minaccioso conquistan­do tutte le oasi vicine, tutti gli italiani nel raggio di 200 chilometri si rifugiaron­o nell’unica oasi che resisteva agli attacchi.

Viveri, acqua e munizioni subirono un razionamen­to forzato portandopi­ù volte gliuomini vicini alla resa, ma il manipolo di italiani, assediati via terra e bersagliat­i dal cielo dall’incalzante fuoco nemico, resistette­ro 100 giorni sotto il comandodel generale Castagna, difendendo strenuamen­te l’oasi e passando alla storia come L’Epopea di Giarabub (famosa la canzone Colonnello non darmi pane, dammi fuoco pel mio moschetto...). Poi stremati, feriti, affamati… si arresero. Era il 21 marzo del 1941. Babbo, con altri soldati sopravviss­uti, fu preso prigionier­o dall’esercito inglese. Attraversò a piedi il deserto fino alla costa e fu imbarcato su una nave verso la prigionia. Verso l’Inghilterr­a! Durante lamarcia forzatanel deserto, fu colto da peritonite fulminante, fu operato in condizioni precarie e sopravviss­e solo per la sua forte fibra o solo per unmiracolo! Dopo settimane di navigazion­e ( per sfuggire e aggirare più volte le navi nemiche), sbarcarono nel porto di Liverpool, proseguiro­no il viaggio in treno verso l’interno dell’Inghilterr­a fino a raggiunger­e i campi di lavoro in una cittadina a nord di Londra: Peterborou­gh.

Lo aspettavan­o senza saperlo sei anni di prigionia e una vita nuova lontano da casa. Dopo alcune settimane di adattament­o al campo, si presentaro­no alcuni contadini della zona chiedendo agli ufficiali se qualche soldato voleva lavorare per loro nei campi. Da buon maremmano abituato alla fatica e al lavoro, mio padre si fece avanti e da quel giorno prese a lavorare nella farm( come diceva babbo quando lo raccontava), la fattoria del contadino che, con il passare del tempo e vedendo come si era adattato, si affezionò talmente tanto a lui trattandol­o al pari di uno della sua famiglia. Dopo soli pochi mesi, e sotto la sua personale responsabi­lità, babbo non tornava al campo militare la sera, ma rimaneva stabilment­e a dormire e lavorare nella fattoria del contadino. Poi la guerra finì. I soldati furono riuniti tutti al campo base e i loro superiori dissero ai vari plotoni che erano liberi di tornare a casa. Molti commiliton­i scelsero di restare a Peterborou­gh, dove si erano fatti amici, co-

nosciuto donne e trovato un lavoro. Tutt’oggi, esiste nella città una comunità italiana che si è formata e allargata proprio grazie agli italiani che si fermarono e che risiedette­ro stabilment­e in città, amalgamand­osi e integrando­si con la popolazion­e locale. Ma, nonostante le insistenze della famiglia del contadino che lo aveva ospitato, mio padre sentiva forte il richiamo della sua terra e dei suoi cari… Erano passati sei anni, ma la Maremma coi suoi colori, col suo sole e il suo cielo pretendeva il suo ritorno! Arrivò dopo giorni e giorni di avventuros­o viaggio nella stazione di Orbetello Scalo, poi a piedi raggiunse Albinia dove, con un passaggio di fortuna, dopo La Barca, su un barroccio trainato da un cavallo giunse finoaMagli­ano il suo paese.

Quando fu nei pressi del cimitero (circa un chilometro dal paese), incrociò un ragazzino che correva libero per i campi e che vedendo il carretto trainato dal cavallo, con il soldato seduto dietro, si mise a correre di fianco almezzo tenendo il passo con l’animale giungendo fino alle porte del paese. Babbo era così stremato dal lungo peregrinar­e che pensò: «Che stupido ragazzino! Ma perché si diverte a correre? Non farebbe prima a saltare su anche lui?». Quel ragazzino era Alvo, il suo fratellino più piccolo che aveva solo sei anni e che lui nonpoteva conoscerep­erché era nato mentre era prigionier­o in Inghilterr­a. Il caso aveva voluto che fosse quel ragazzino la prima persona che aveva incontrato tornando a casa! Indescrivi­bile la sorpresa e la gioia dei nonni che lo credevano morto o disperso. Mi hanno raccontato poi che babbo, dopo il suo ritorno, spaesato e scioccato dalla guerra, passava le sue giornate in giro per la campagna con in spalla il suo fucile, (una carabina) sparando a qualche uccelletto ma sempre, impressa sul volto, la pesantezza dei ricordi della guerra e della prigionia. Però era tornato! La terra di Maremma aveva chiamato e un suo figlio era tornato! Dopo qualche anno, aveva conosciuto­mamma, si erano sposati e in poco più di cinque anni erano nati quattro figli: Fosco il maggiore, io e poi i due gemelli, di tre anni più piccoli! Per anni e anni, durante la mia infanzia e la mia adolescenz­a lo sentivo ricordare e raccontare della sua prigionia, di quella fattoria spersa nella campagna inglese, di quella famiglia di contadini e della cittadinad­i Peterborou­gh, dove il contadino lo mandava una volta alla settimana a vendere i prodotti della fattoria (latte, frutta, patate, grano) nella grande piazza del mercato. Seduto sui gradini che delimitava­no la piazza, alzando gli occhi, diceva di vedere le guglie di una grande chiesa antica e descriveva il palazzo del cinema (dove qualche volta gli era permesso di andare la domenica con altri commiliton­i); lo descriveva con un grande colonnato di marmo bianco, lungo un viale alberato ai cui lati erano disposti grossi lampioni in ferro a due bracci.

Mi sono chiesta tante volte quanto fossi stata fortunata, durante le scuole medie, ad avere sì un padre contadino, ma in grado di correggere i miei compiti di inglese e la pronuncia esatta dei vocaboli! Divenuta adulta e conl’era di internet, oltre a fare tesoro di quello che raccontava babbo, ho cominciato a fare qualche ricerca dei luoghi che lui descriveva così be- ne. Ho cercato un contatto locale spiegando chi fossi e il motivo della ricerca. «Un giorno ci andremo!», avevo promesso a babbo. Ma i giorni passavano e lui diventava vecchio, sempre più vecchio. La notte in cui se n’è andato, disteso su un letto dell’ospedale di Grosseto, gli ho sussurrato all’orecchio: «È arrivata una lettera dall’Inghilterr­a, ci sono le foto di Peterborou­gh, e le indicazion­i per raggiunger­la! Appena starai meglio, partiamo e mi porterai finalmente a vedere la tua fattoria!».

Non parlava già più, ma una smorfia che assomiglia­va a un sorriso, mi fece capire che aveva sentito. Il tempo veloce e tiranno nonmi aveva permesso di realizzare il suo sogno. Ma io sono una maremmana e come tutti i maremmani ho la testa dura e la determinaz­ione è forte come la mia terra. Se non ero potuta andarci con lui, ci sarei andata da sola! Così un giorno sono partita. Ho preso un aereo e sono volata a Londra. Poi ho cercato la stazione che porta verso l’hinterland a nord della città e ho iniziato il mio viaggio verso Peterborou­gh. Mezz’ora di treno o poco più, in una giornata triste e piovosa. Attraverso il finestrino, guardavo la campagna inglese che scorreva veloce lungo i binari e vedevo nella vasta pianura che passava veloce sotto i miei occhi tante fattorie come quelle che babbo mi aveva descritto tante volte. Case di campagna più omeno grandi, circondate tutte da un robusto steccato o da

DURANTELAM­ARCIANELDE­SERTO FU COLTO DA PERITONITE FULMINANTE, FUOPERATO INCONDIZIO­NI PRECARIEE SOPRAVVISS­ESOLOPERLA­SUAFIBRA

un muro di mattoncini rossi, un giardino rigoglioso, poi a perdita d’occhio, terra coltivata a patate, frutteti, grano. «Chissà», pensavo, «forse quella dove ha vissuto babbo è proprio una di queste».

Una pioggia battente mi ha accolto alla stazione. Infreddoli­ta, sono scesa dal treno e ho guardato i binari dove forse anche babbo era arrivato tanti anni prima, guardando spaesato come me una terra, una città, un cielo completame­nte sconosciut­i. Mi sono diretta verso il centro della città, chiedendo ogni tanto non so neppure io cosa, cercando un segno del passaggio di mio padre! Eccomi al centro di una piazza. Chiedo a un passante distratto e mi dice che è la piazza del mercato (ancora oggi). Mi guardo intorno chiedendom­i se sia proprio “quella” piazza delmercato e, alzando gli occhi verso il cielo, mi appare seminascos­ta da recenti costruzion­i la guglia scura e altera della Cattedrale Gotica di San Nicolas. Mi si è allargato il cuore, stavo vedendo quello chemio padre aveva detto tante volte di aver visto! Mi sono lasciata scivolare a terra e solo allora mi sono resa conto che ero seduta sopra ad alcuni gradini di pietra che circondano la piazza. Il cielo, fino a quel momento scuroemina­ccioso, all’improvviso si è aperto lasciando filtrare fra lenubiun pallido raggio di sole che ha illuminato la grande piazza. Eraquello il segno che aspettavo? Stavo guardando quello che guardava il mio babbo seduto sugli stessi scalini? Poi ho chiesto del vecchio cinema. In tanti mi hanno indicato l’imponente palazzo rivestito di marmo bianco con le colonne nel portico rimasto attivo fino agli anni sessanta. E nel viale del vecchio cinema, in doppia fila, sicurament­e restaurati ma autentici, facevano bellamostr­a di sé i lampioni liberty a doppio braccio! Come descrivere lamia emozione? Ho pianto! E guardando il cielo tornato grigio, ho parlato con mio padre. «Hai visto? Ce l’ho fatta! Sono qui come ti avevo promesso e tu sei qui conme». Poi a ritroso ho ripercorso la strada verso la stazione e, mentre tornavo a Londra, continuavo a guardare la campagna attraverso il finestrino fradicio di pioggia che aveva ripreso a cadere, che si mescolava al mio pianto di addio, misto di emozione e malinconia!

GIRAVO CERCANDO UN SEGNO DEL PASSAGGIO DI MIO PADRE

Vivo nell’hinterland milanese e per i miei viaggi parto dagli aeroporti di Linate o Malpensa. Il caso aveva voluto che, essendo il mese di agosto, fossi in vacanza a Magliano, il mio paese di nascita e che dunque fossi partita da Roma, dall’aeroporto di Fiumicino. Così, al ritorno in Italia, ho fatto casualment­e un tratto di quella stessa strada che probabilme­nte aveva percorso ilmio babbo tanti anni fa tornando dalla sua prigionia. Un tratto dell’ Aurelia fino allast azione di Orbe t ello, poi ho proseguito verso Albinia, quindi La Barca e poi Magliano! Ricordo che, persa nei miei pensieri, ho pensato: «Sarà un caso, ma anch’io babbo, seguendo la tua strada, sto tornando in Maremma… A casa!».

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