«Semplicemente indimenticabili»
Le mille storie rinchiuse in una stazione
Tra binari, treni, valigie trascinate, frenesia e altoparlanti che fan cadere dall’alto comunicazioni che non mi riguardano, osservo i viaggiatori del nostro tempo, in balìa del susseguirsi degli eventi della loro vita che li ha portati proprio qui, proprio oggi, come dietro appuntamento, nella stazione della Capitale d’Italia. Li guardo controllare il gigantesco pannello di arrivi e partenze. Eccoli tutti in fila a scegliere uno dei tanti panini impilati in bella vista dietro vetrine con ditate stampate sopra e raschiare speranzosi un gratta e vinci da ferrovia, appoggiati dove capita. Li vedo seduti fermi a scappar via dietro finestrini di treni che fuggono. Osservo i loro volti anonimi che s’incrociano per un brevissimo istante, per non rivedersi mai e mai più. Penso a un nervoso occasionale compagno di viaggio del quale non ho mai saputo il nome e che mai più rivedrò, che seduto di fronte a me, da Firenze a Roma, mi ha raccontato tutta la sua sconquassata vita, con la vigorìa dello sfogo di chi desidera far tempesta nella vita degli altri con le sue pessimistiche convin- zioni. Di contraddirlo non era il caso, né era luogo di consolazione, né potevo andarmene altrove. Ho accettato quindi la sua imposizione mettendo a riposo il libro che stavo leggendo, soprassedendo al tedio con una gran pena e l’educazione sottoposta a dura prova. Guardandolo gesticolare come un matto, quel che pensavo quel giorno era che i grandi romanzieri secondo me è per treni che vanno, a cercar materiale per le loro storie. Finalmente arrivati, l’esasperante se n’è andato per la sua strada, coi suoi bagagli tangibili al seguito, rappresentati da una valigia e uno zaino, e quelli invisibili, ben più grevi e ingombranti, che si porterà appresso ovunque e per sempre.
Esco ed entro dai negozi di questa Termini trafficata, senza che i commessi prestino attenzione particolare, assuefatti al gironzolare inconcludente di viaggiatori che fan passare il tempo in attesa del treno giusto. Provo scarpe, occhiali, cappelli. Compro cartoline e francobolli e qualche inutile orpello che mi attrae inspiegabilmente. Un piccolo bambino che corre distratto mi sbatte contro e tutto il gelato che tiene sul cono finisce spiaccicato sul mio trench nuovo di zecca. Si ferma e si gira terrorizzato a veder se la mamma lo ha visto. Poi mi guarda aspettandosi il peg-
gio. Mimetto un dito davanti alle labbra per fargli segno di star zitto, che nessuno lo sgriderà, per questo.
Gli faccio sapere che è stato fortunato, a incappare nell’unica fata di tutta la stazione. Lui è talmente piccino, innocente e Gesù Bambino, che si può star certi che ci crede, a quel che gli dico. Nemmeno per un istante pensa sia una che le spara grosse. A riconoscenza, mi viene vicino e con le sue manine cerca di tirar via il gelato e praticamente peggiora la situazione, strascicandolo sul resto dell’impermeabile. Lo fermo e accarezzo il suo visino tutto impiastricciato, pensando che è questa boccuccia al cioccolato l’immagine della felicità. Arriva una giovane donna sull’isterico con al collo un altro piccino e un trolley permano e gli grida: «Cosa cavolo fai Nicolò?». «Niente mamma, te lo giuro». Poi mi guarda come lo avessi appena salvato dall’Apocalisse e nulla al mondo è paragonabile allo sguardo riconoscente di un bambino. Nell’allontanarmi gli mando un bacino con la mano e gli strizzo l’occhio. Lui sta lì a guardarmi con in mano il cono ormai spoglio e cerca di fare altrettanto ma non gli riesce e li strizza tutti e due, i suoi occhietti. Siamo due dannati complici, piccolo Nicolò, che si tengono stretti il loro segreto. E che il resto del mondo si faccia i cavoli suoi. Intanto, penso che da queste parti un bravo fotografo avrebbe del gran materiale su cui lavorare. Potrebbe fermare dei momenti irripetibili, immortalare dei visi sorprendenti. C’è una donna cannone che cammina a fatica con le calze autoreggenti arrotolate sui salsicciotti alle caviglie, devastata come se stesse attraversando il Sahara sotto il sole rovente. Nonostante la bruma di novembre, indossa solamente un vestito leggero, il più sgargiante di tutta la stazione, che buca da lontano. Al suo seguito, ci sta un omuncolominuto che trascina una valigia monumentale con grosse rotelle. Ogni tanto lei gli fa segno di fermarsi e lui sdraia a terra il bagaglio sul quale la donna appoggia il sedere. E il piccolo grande uomo le si avvicina e le fa aria con un giornale. Poi scarta una caramella e, come il prete con l’ostia, con gesto sacrale la porta davanti alla bocca della donna, che apre e inghiotte.
Elui sfiora con una lieve carezza il viso sudato, e poi stappa una bottiglietta d’acqua e inzuppa un fazzoletto cavato di tasca, e inginocchiandosi lo passa sulle caviglie gonfie della sua sirena. E mi chiedo chi sia mai, quella grossa ape regina favorita dalla sorte, che gira per stazioni col suo fuco-paggetto fedele e oltre ogni dubbio (sia esso marito o fratello o fidanzato) portatore di quell’amore cieco e analfabeta e assoluto e indivisibile che in un mondo cane basta e avanza e che ognuno di noi si augura di conoscere, prima o poi, nella vita. C’è una bambina fuori dalla toilette, apparentemente sola. Ma non può essere. Ci sarà per forza qualcuno che veglia su di lei. È talmente bella, con lunghissimi capelli neri tutti scarmigliati che cascano su incredibili occhi chiari, grandi e allungati come quelli di una cerbiatta. Il suo nasino e le sue labbra sono legate da un’armonia soave. Indossa una giacchetta color ciclamino. È una da pubblicità, da copertina, faccenda da poeti o pittori o animi sensibili. Nella rumorosa realtà di questa trafficata stazione, invece, nessuno si avvede della bellezza dei suoi pochi anni. Nessuno la osserva comeme, ma tutti le passano accanto indifferenti, tanto che sto a chiedermi se non sono solo io, a vederla. Se non sia una di quelle creature celestiali mandate su questa terra ad allietare con la loro incredibile bellezza chi fa attenzione a quello che gli capita intorno e crede che anche nel fuorviante contesto di una stazione, se ci fai attenzione, se sei uno che va col passo giusto e non ti limiti a guardare la vita che passa e va, ma ne osservi con scrupolo ogni santo minuto, puoi trovare in giro gioielli che brillano solo per te. Chissà se è appena scesa da un treno per allietareRoma con la sua grazia o se sta aspettando quello che la porterà lontano a vivere tutto il resto della sua vita da bellissima. Insisto nello sguardo. L’incanto, da sempre, mi cattura. Lei alla fine si accorge che la osservo e mi sorride.
Ah, poter essere uno di quegli scrittori in grado di descrivere alla perfezione quello che dai suoi incredibili occhi viene nella mia direzione! Da quella scrittorella da poco che sono, invece, non trovo le parole. Posso solo dire che è qualcosa di molto forte. E trascinante. Tanto che decido di regalare a lei questa rosa bianca che tengo tra le mani, romantico omaggio di un uomo affascinante e sconosciuto col quale ho spartito un’oretta di batticuore a un passo dal treno che lo sta portando via. Le vado vicino, mi accovaccio fino a diventare piccola come lei, la saluto e le dico: «Ciao, la vuoi una rosa?». Fa «no» con la testa. Èpiccola, avrà quattro anni. «Perché no?». «La rosa fa il graffio», risponde. E allora le rompo, quelle spine, una a una. Sevizio una rosa che domani potrebbe ricordarmi quel che invece è da dimenticare. Non la voglio più vedere, questa rosa, e la regalo a questa bambina che tende la sua manina. Fanne quel che vuoi, di questo bel fiore bianco, piccina. Il suo destino è nelle tue mani. Soltanto perché sei così bella. Soltanto perché sei poesia e realtà. Soltanto perché esisti.