NONCHIAMATELI PIROMANI E KAMIKAZE
Perché prima di aprir bocca non ci intendiamo sul significato delle parole? «Piromane» è un maniaco del fuoco (Erostrato da Sefeso incendiò un tempio per passare alla storia, e ci riuscì). Chi sta incendiando mezz’Italia non è un maniaco. È un criminale che se ne frega della storia e, per loschi interessi, distrugge vite umane e trasforma un bosco in discarica controllata dalla ‘ndrangheta. E veniamo alla parola scandalo che offende tutti coloro - e sono sempremeno - che ancora esercitano il diritto di indignarsi. Quando accade un attentato in qualche angolo di mondo si parla di «commando», «lupi solitari», e quasi sempre di «kamikaze». Tutti credono di sapere come nasce questo vocabolo, legato al gesto disperato dei piloti da caccia giapponesi che si lanciavano su una portaerei americana sacrificando la vita per
l’imperatore. Quasi tutti sanno che il vocabolo è formato da due parole: Kami che è una divinità dello scintoismo e Kaze che significa vento. Non tutti sanno che la romantica definizione di «vento divino» fu assegnata la prima volta non a un essere umano ma a una forza della natura, e precisamente a quel tifone che nel 1128 travolse la flotta mongola e salvò il Giappone dall’invasione. Nel passato e nel presente il concetto di kamikaze appartiene comunque all’etica samurai, ovvero alla volontà di immolarsi in difesa dei valori più nobili. Perché stoltamente chiamiamo kamikaze chi sceglie il suicidio non per distruggere un obbiettivo militare nemico, ma per disintegrare uno scuolabus? O per fare a pezzi la folla di un mercato? O per aggiungere altro dolore e altra morte alle corsie di un ospedale? O per inondare di sangue un tempio gremito di fedeli? Perché nobilitiamo con la parola kamikaze chi sogna di salire in cielo e guadagnare un talamo guarnito di vergini, al prezzo di una carneficina di innocenti?